giovedì 20 dicembre 2012

Napoli muore (ancora)

Un palasport in rovina per un movimento in rovina

Napoli è morta. Ancora una volta. E sinceramente si inizia a perdere il conto.
Dall'esclusione della squadra di Maione ad oggi si sono succedute la Nuova Sebastiani Napoli, la Nuova Pallacanestro Napoli, il Napoli Basketball, il Nuovo Napoli Basket.
Delle quattro società (in cinque anni), solo il Napoli Basketball ha terminato la stagione, e ha dovuto creare questa strana creatura a due teste con la Pallacanestro Sant'Antimo nella speranza di non morire. Anche in questo caso, nulla da fare, con la squadra esclusa dopo sole tre giornate. Un record difficile da battere.

C'è poco da commentare, ci sarebbe tanto da scrivere ma al momento preferisco lasciar perdere.
Queste esperienze sono nate da basi diverse: c'è chi ha provato a partire dal basso, chi a coinvolgere i tifosi. Il comune denominatore è il loro fallimento, che lascia l'impressione che a Napoli sia impossibile fare basket, in una città dove tra l'altro il calcio monopolizza l'attenzione. In un movimento che necessiterebbe di riforme radicali per poter essere nuovamente appetibile per imprenditori seri.
La chiave è il Mario Argento, dicono in città. Ma la sensazione è che, ormai, sia diventato una giustificazione.



venerdì 14 dicembre 2012

Può un canadese salvare Los Angeles?

Può un uomo solo salvare una squadra allo sbando, con un impatto tale da risolvere ogni problema del team, anche quello per il quale l'uomo in questione (e lo stesso team) è decisamente carente? Perché è di questo che stiamo parlando.

Nash indica a Gasol il numero delle penetrazioni tenute dalla difesa Lakers

La premessa è nebulosa, quindi andiamo con ordine. L'uomo in questione è Steve Nash. La squadra, i Los Angeles Lakers modello inverno 2012. Ossia una squadra senza fiducia, con un record decisamente negativo, già condannata a dover rincorrere l'ottavo posto nel competitivissimo ovest.
Il play canadese può sicuramente portare una svolta considerevole nei meccanismi lacustri. E' il compagno di squadra ideale, uno di quei giocatori in grado di migliorare i compagni già solo con la sua presenza in campo, figuriamoci se gli metti la palla in mano, lo affianchi allo scorer più letale dei tempi moderni, magari ci metti quel lungagnone spagnolo barbuto a rollare e due figuranti negli angoli.
Benissimo. Ma poi c'è da difendere, e là subentrano i problemi, perché il canadese è tutt'altro che un difensore rispettabile, e si andrà ad inserire in qualcosa che, ad oggi, risulta difficile chiamare difesa.

Il primo tempo della gara giocata dai Lakers a New York è l'emblema di quanto scritto. Male nelle transizioni difensive, dove il primo a trottare pigramente è il leader della squadra. Malissimo nelle rotazioni sul perimetro, con tanti tiri comodi - e per comodi intendo con anche quattro metri di spazio - concessi ad una squadra che da 3, per usare un eufemismo, tira benino. Peggio che malissimo a centro area, dove Robert Sacre (sì, Robert Sacre) è risultato essere il migliore dei tre lunghi negli aiuti. Jordan Hill non lo consideriamo proprio, ma il più volte proclamato (e autoproclamatosi) miglior difensore NBA, con tutte le scusanti dei problemi fisici, non è riuscito a fornire quel minimo di intimidazione in grado di scoraggiare le scorribande di Felton & co.

La shot chart dei Knicks nel primo tempo

A questo punto la questione diventa una e semplice. Può, al suo ritorno, il rispettosissimo Steve Nash (e Gasol, passato da capro espiatorio a uomo rimpianto tra le lacrime) generare un "entusiasmo offensivo" tale da mascherare le tante carenze difensive di questi Lakers, che dovrebbero acuirsi ulteriormente con il canadese in campo? Riuscirà a migliorare così tanto l'attacco gialloviola da fare sì che anche la difesa migliori? Da questi interrogativi passano le ambizioni dei Lakers. 

domenica 9 dicembre 2012

Belinelleide: dal primo ferro ai Chicago Bulls

Non sono mai stato un ammiratore di Marco Belinelli. Anzi..
Ricordo gli inizi in serie A, promessa prima della Virtus e poi soprattutto della Fortitudo protagonista di una serie di playoff tesa anche oltre i limiti contro la "mia" Carpisa Napoli. Aquei tempi già si diceva che il livello del campionato fosse sceso, ma ad oggi la rosa di Bologna e soprattutto quella di Treviso vincitrice dello scudetto appaiono mostruose. Chiusa parentesi, le cifre di Belinelli in quella serie:
20 punti realizzati alla prima in casa, 8 a Napoli, 23 a Bologna, 3 a Napoli e poi una MOSTRUOSA gara 5 a Bologna, con 34 punti e 8/14 da 3. Dopo gara 5, Belinelli dichiarò di aver rischiato la vita a Napoli, meritandosi ancora maggiore simpatia da parte del pubblico partenopeo. Inoltre, un certo scetticismo (seppur solo parzialmente confermato dalle medie totali) sul suo rendimento fuori casa iniziava a serpeggiare.
A vent'anni comunque il ragazzo iniziava ad attirare più antipatie che simpatie non solo a Napoli. Non erano in discussione né il talento, né le capacità come tiratore. In generale però, un atteggiamento non proprio umile, una faccia.. un po' così, facevano sì che buona parte dell'Italia godesse quando per Marco risuonava metallico il primo ferro.

Sono bravo e me ne frego se mi puzzano le ascelle.
Estate 2006: Belinelli si consacrò come prospetto NBA segnando 25 punti contro la nazionale americana ai mondiali. Scisceschi, per sua stessa ammissione, l'avrebbe accolto a braccia aperte a Duke. Invece no, ultimo anno italiano, dove il nostro diventa top scorer di una non memorabile Fortitudo Bologna. Inoltre, iniziava un po' a serpeggiare un certo atteggiamento da fenomeno, che lo portava a spettacolarizzare un po' certe situazioni: i numerosi fadeaway non richiesti e il chiodo fisso NBA facevano di "Tu vuò fa l'Americano" la colonna sonora ideale delle gesta del bolognese.
Il dado era tratto, Marco andò in America; 18esima chiamata ai Warriors del mefistofelico Don Nelson. Il pensiero collettivo era "che figata per Marco, tiratore in una squadra che nasce e muore col tiro da fuori".

Mi è proprio andata di culo...
Peccato che, nonostante la compatibilità "tecnica" (due virgolette sono poche, lo so, si parla sempre dei Warriors di Nelson), non si fosse tenuto conto dell'idiosincrasia del coach per i rookies. "Mr Nelson, quanti minuti giocherà Belinelli?" "Minuti?!" la lapidaria risposta. Traduzione, 33 partite giocate, 7 minuti e 3 punti scarsi di media.
La stagione successiva, 2008/2009, Marco vide più il campo. Niente di eccezionale, ma mostrò dei progressi nella gestione del pick'n'roll, soluzione che raramente eseguiva quando giocava in Europa. Marco fu poi spedito a Toronto, per formare sul campo quella Italian Connection in una città strapiena di Italiani. Un disastro.
Arrivò così la prima svolta: anno 2010/2011, New Orleans, alla corte di Monty Williams e Chris Paul. Diciamo che se Belinelli dovesse avere dei figli maschi, Chris e Monty, ma anche Paul e già che ci siamo William sarebbero nomi da prendere seriamente in considerazione.

Coach, gli fai tu da padrino al battesimo?

Coach Williams vide in lui non la presunta star tendenzialmente fighetta che aveva lasciato Bologna e che da allora poco aveva fatto per far cambiare idea a riguardo, ma un lavoratore che mantiene un basso profilo e che non si lamenta letteralmente mai. Magari in questo, ipotizziamo noi, aver condiviso lo spogliatoio con il Capitano Jack ha aiutato (lo immaginiamo, nella sua stagione da rookie, non molto diverso da Lo Storpio della grandiosa scena di Pulp Fiction). Inoltre, giocare con Chris Paul rende le cose un po' più semplici.
Bilancio della stagione 10/11: 69 partite in quintetto, 24,5 minuti di media, 41% abbondante da 3 e quasi 11 punti di media; inoltre, nonostante non sia mai stata una specialità della casa, una difesa generalmente accettabile.
Alla fine della stagione 2011, Belinelli è di fatto un giocatore NBA. Pensiero dell'Italia cestitstica: "Bravo! E perché non resta in America anziché venire a rompere i coglioni in Nazionale?". Sì, perché in azzurro Marco ha spesso mostrato il peggio di sé, soffrendo forse della discrepanza tra la volontà di voler essere il leader dell'attacco e la totale mancanza di abitudine a giocare in questo modo.

Gioco così male che metto la maschera per non farmi riconoscere

Ho lasciato la Lituania pensando "Belinelli primo nemico", e lo attendevo al varco per la successiva stagione americana, senza il santo Cristiano Paolo a rifornirlo di palloni in angolo per comodi tiri da 3. Belinelli ha giocato una stagione ancora migliore della precedente, al punto da far sostanzialmente ricredere quelli di Buzzerbeaterblog che per lui avevano coniato l'azzeccato sottotitolo: SDENG dal 1986.
Quest'anno la grande occasione, i Bulls di coach Thibodeau, seppur privi di Rose. Inizio da incubo, poi si rompe Rip Hamilton e Marco finisce in quintetto. L'occasione della vita.. e la sta cogliendo.
Cosa è scritto nel futuro di Belinelli? Tranquillo, nella telecronaca, vede per lui un ruolo di "impatto", con minuti limitati, in determinate situazioni della partita. Ma mi chiedo io, perché a questo punto non potrebbe essere un titolare? Il giocatore che gli sta davanti è chiaramente in parabola discendente. Rispetto a Marco non offre né un tiro migliore, in una squadra che ha tanto bisogno di tiro, né una "migliore" fase difensiva.
Forse sarebbe proprio Hamilton a poter garantire un migliore impatto in fasi limitate della gara: anche in contumacia Rose, i Bulls potrebbero sfruttare situazioni di uscita a ricciolo nelle quali Rip è maestro. Togliere Belinelli dal quintetto significherebbe anche perdere il potenziale realizzativo messo in mostra proprio nei primi quarti (come riportato dallo stesso Tranquillo, 85% dal campo nei primi quarti). Inoltre, come esecutore di pick'n'roll, Marco potrebbe ben figurare anche in coppia con Hinrich e/o Deng da 4 a sfruttare eventuali scarichi sul perimetro. In questa specialità i Bulls hanno un notevole interprete in Rose, ma poco altro. Inoltre, il p'n'r di Belinelli richiederebbe delle scelte diverse alle difese rispetto a quello di Rose, il che comunque può essere un vantaggio per l'attacco. In sostanza, non voglio dire che Belinelli sia più "forte" di Hamilton (non ora, figuriamoci quando Hamilton era al top), ma solo che al momento sia più adatto a partire in quintetto.
Come è arrivato a meritarsi tale considerazione, almeno da un osservatore ostile come il sottoscritto? Negli anni NBA Belinelli è dei tre italiani quello che ha affrontato le maggiori difficoltà, ma è stato anche quello che più ha saputo trasformarsi. Sì, proprio come Bargnani! Belinelli ha fatto un bagno di umiltà e lasciando il suo ego fuori degli spogliatoi che, solitamente, di ego sono strapieni. Infine, ha seguito il principio secondo cui se nel mondo NBA vedi una porta socchiusa, non devi bussare ma fiondartici dentro. Dei tre italiani è quello che merita il maggiore rispetto. E MAI avrei pensato di scrivere una cosa del genere.
In nazionale, Belinelli deve ancora trovare la sua dimensione. E' evidente che non abbia le capacità di fare il "playmaker", come ha provato a fare sinora. E' evidente che debba fare un passo indietro, che però non è molto differente da quello che ha fatto in questi anni di NBA. Palla in mano con moderazione, gambe basse in difesa e coinvolgimento offensivo come finalizzatore o "specchietto per le allodole", in modo da liberare i notevoli tiratori di cui disponiamo.
La maturità arriva per tutti, prima o poi. Di certo, giocare da guardia titolare nel palazzo che fu di Michael Jordan, aiuta.