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La vittoria di Dallas è infatti arrivata in maniera così semplice da sembrare scontata, inevitabile, necessaria. Jackson le ha provate tutte, andando contro non solo il suo credo cestistico, ma se stesso. Inutilmente. Perché il vero carnefice dei Lakers non sono stati i miliardi di Cuban, i crauti di Nowitzki, le visioni di Kidd, le zingarate di Barea, le triple di Terry e Stojakovic, la difesa di Chandler, non le scelte difensive di Carlisle, ma il tempo. Semplicemente, inesorabilmente, il tempo.
Quello che Bryant ha passato a giocare nonostante infortuni, sempre al limite. Quello che Phil Jackson ha provato ad ingannare, concedendosi un anno in più. E' arrivato il conto, in anticipo rispetto al previsto, in ritardo rispetto al dovuto.
E' finito il tempo di Kobe sopra tutti, probabilmente è finito il tempo di Fisher, se le voci hanno un minimo di credibilità anche quello di Gasol ai Lakers. Il meno indenne al tempo poteva essere Bynum, il più giovane di tutti, nonostante il buon lavoro di Chandler e le parole di Magic, che lo vorrebbe sacrificato per arrivare a Dwight Howard. Anzi, era del tutto indenne fino alla sua insensata espulsione, quando il "bambinone" ha deciso di dimostrare che col tempo (e la maturità), a differenza degli altri, è ancora in credito. Per Bynum questa fine potrebbe comunque essere un inizio, con un nuovo ruolo ai Lakers o presso altri lidi.
Phil Jackson ha vinto tanto, avendo a disposizione, di volta in volta, il giocatore più forte supportato dai più forti. Il tempo ha dimostrato che queste condizioni, oggi, non c'erano. E Phil Jackson non ha potuto fare altro che guardare un intero secondo tempo di garbage time.
La fine di un'era ha riportato i suoi protagonisti alle pendici del monte per la cui scalata c'erano voluti 5 anni. Quelli della ricostruzione. E pressoché certo che altri 5 anni, Jackson, Bryant e soci non li abbiano. E la domanda che questi Lakers ci lasciano è, quante dimostrazioni e quante smentite servono per "pesare" una carriera?
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