domenica 17 febbraio 2013

Crossroads: Dontae’ Jones, una vita al bivio


Scritto per HoopsDemocracy

Down to the crossroads, fell down on my knees.
Asked the Lord above for mercy, “Save me if you please.”
(Cream - Crossroads, tratta dal Cross Road Blues di Robert Johnson)
L’uomo deve scegliere. In questo sta la sua forza: il potere delle sue decisioni.
(Paulo CoelhoMonte Cinque, 1996)

Cadere è facile, rialzarsi è difficilissimo. Figuriamoci farlo più volte.
Iniziamo dalla caduta. Dontae’ Antijuane Jones è un ragazzo che gioca da junior nella squadra di basket della Stratford High School. Dontae’ (con l’apostrofo, per volere della madre), come gran parte dei giovani del Sud, era cresciuto seguendo i dettami del Dio Football sotto la guida del padre, suo primo istruttore. Ma aveva presto scoperto il basket, giocando con la gente del vicinato.
Il ragazzo ha talento ma si infortuna al ginocchio ed è costretto a saltare la stagione. Depresso per l’impossibilità di poter giocare, abbandona gli studi e sbarca il lunario preparando il pollo in una catena di fast food, il Kenny Rogers Toaster.
In certi contesti, il rischio di trovarsi in mezzo ad una strada, con tutte le conseguenze del caso, è molto alto. Ma a Nashville la polizia ha promosso la nascita di una lega, la Midnight League, finalizzata proprio a tenere i ragazzi lontani da certe situazioni problematiche. Si gioca di notte, e si cerca di far capire ai giovani a rischio che ci sono altre strade oltre a quelle del crimine. Ristabilitosi dall’infortunio, Jones di giorno trincia polli e la sera gioca a basket sui campi della lega.“Giocare in quel contesto mi ha permesso di mettere in mostra le mie abilità, anche se ero tra i più giovani in campo”, spiega.
Lo nota Kindell Stephens, in passato Sports Information Director a Tennessee State, che lo avvicina e lo convince ad affrontare il GED test, l’equivalente di un diploma di High School. Jones lo supera e per lui si spalancano le porte dello Junior College di Northeast Mississippi State. E’ il 1993.
In campo Dontae’ domina, con la sua elevazione da 40 pollici (circa un metro) e il suo tremendo bagaglio tecnico: il primo anno le medie parlano di 25 punti e 11 rimbalzi; nel secondo si migliora (28.7+13.3). In entrambe le stagioni è uno Junior College All-America. Le sue prestazioni fanno notizia, tanto che tra il pubblico inizia a fare capolino Richard Williams, coach di Mississippi State. E proprio di fronte a lui Jones chiude una partita con 52 punti, 21 rimbalzi, e una netta sensazione di onnipotenza. Williams è incantato, vuole allenare quel ragazzo.
Ma c’è un problema: come spesso accade in quella particolare zona grigia che c’è nel basket NCAA, Jones ha trascurato gli studi. “Pensavo che tutto quello che dovessi fare era giocare a basket, e loro ti avrebbero fatto andare avanti”, ricorda. Necessita di 36 crediti per cambiare ateneo ed essere eleggibile: un altro bivio, un’altra sfida.
Dontae’ non si dà per vinto, e passa l’estate sui libri per poter raggiungere l’obiettivo: ottiene 21 crediti a Northeast Mississippi e il resto in corsi per corrispondenza a Southern Miss, creando un precedente al quale la NCAA rimedierà successivamente, con una regola che oggi porta proprio il suo nome. Qualche anno dopo, un’insegnante di psicologia, Peggy Wroten, farà causa agli amministratori di Northeast Mississippi, accusandoli di averla licenziata perché si era rifiutata di cambiare i voti di Jones. La professoressa vincerà la causa.

Jones si trasferisce così a Mississippi State, per affrontare con i Bulldogs la stagione 1995/1996. L’ateneo non ha una tradizione cestistica di alto livello, a parte una storica qualificazione alle Sweet Sixteen del 1963. Ma l’ossatura di quei Bulldogs è molto buona, con la guardia Darryl Wilson, tiratore micidiale che vedremo in Italia (Livorno, Ragusa, Osimo, Scafati, Montecatini) e il centro Erick Dampier, futura pick numero 10 al draft NBA, lega nella quale militerà per 16 anni.
I Bulldogs iniziano la stagione agevolmente (8-1), ma quando iniziano le partite contro le avversarie di conference qualcosa non va per il verso giusto. Ne perdono 4 su 7 e terminano la stagione regolare con un record di 10-6. Nonostante tutto, Jones si integra bene (14.7 punti e 6.8 rimbalzi): “Conoscevo i ragazzi della squadra già quando andavo allo Junior College. Poi mi sono trasferito lì e loro erano sicuri – e anche io lo ero – che fossi il pezzo mancante per una grande stagione. Sai, a volte si crea quell’atmosfera speciale, come poi mi è successo anche a Napoli, con un gruppo di ragazzi bravi che insieme possono essere grandi”.
Coach Williams concorda, seppure con qualche eccezione. “E’ il giocatore di basket con più talento che abbia mai allenato. La sua capacità di relazionarsi con gli altri ha aiutato molto me e la nostra squadra: è uno di quelli che la gente descriverebbe come spirito libero. Ma ci sono delle volte in cui vorresti strozzarlo perché non fa quello che tu gli chiedi”.
Al torneo di Conference si scrive la storia dell’ateneo: sconfitte Auburn e Georgia, la finale è contro i Kentucky Wildcats di Rick Pitino e Jim O’Brien. Li chiamano “The Untouchables”. Mississippi State vince 84-73, contro una squadra composta da nove futuri giocatori NBA. MVP del torneo, neanche a dirlo, è Dontae’ Jones, autore di 28 punti e 11 rimbalzi nella gara decisiva. Touchables.
Al torneo NCAA i Bulldogs continuano a vincere: si sbarazzano di Virginia Commonwealth e Princeton. Nelle Sweet Sixteen fanno fuori 60-55 la Connecticut di Ray Allen. Al turno successivo ad essere spazzata via è Cincinnati, con Jones ancora protagonista (23+13): i Bulldogs approdano alla loro prima Final Four della storia, dove perderanno con Syracuse. A vincere il titolo sarà quella Kentucky battuta nella finale della SEC.

A questo punto il nome di Dontae’ Jones è sulla bocca di tutti, e la sua storia sulle pagine dei giornali. Impossibile non resistere alle tentazioni dell’NBA. Tra le squadre che gli offrono un workout ci sono i Lakers. La dirigenza gialloviola gli contrappone – in un provino che entrerà nella storia del gioco – un ragazzino appena uscito dall’high school: Kobe Bryant.
Di quel tryout si è discusso molto, ma credo che lo stesso Bryant non abbia mai avuto la possibilità di parlarne direttamente. A quel provino eravamo noi due, Jerry West, Mitch Kupchak e Larry Drew. Fu molto, molto competitivo, e mi piacerebbe avere la versione di Kobe su ciò che successe a Inglewood. Alcuni reports dicono che lui dominò, ma sono decisamente falsi: entrambi abbiamo dato il massimo. Fu un grande workout anche per me, perché mi permise di vedere in prima persona uno dei più grandi giovani giocatori di basket del pianeta. Mi divertii molto a stare in campo con lui e sono sicuro che per Kobe fu lo stesso. Fu un grande workout, di sicuro non fui spazzato via dal campo e potrei dirlo ovunque e sempre, anche davanti a Kobe: nessuno fu battuto pesantemente”.
Come andarono realmente le cose non ci è dato saperlo, ma in quel momento non cambia solo la storia della vita di due giocatori e di due uomini, ma dei successivi 15 anni di NBA.

Rutherford, New Jersey. E’ il 26 giugno 1996, la notte di uno dei Draft NBA con la maggiore quantità di talento della storia. Stringono la mano a David Stern giocatori del calibro di Allen Iverson, Marcus Camby, Shareef Abdur-Rahim, Stephon Marbury, Ray Allen, Antoine Walker. La 13sima pick è per un ragazzino di nome Kobe Bryant. Dontae’ Jones viene scelto alla numero 21 dai New York Knicks. Evento rarissimo: alla chiamata l’esigente pubblico newyorkese esulta. Ma le cose non andranno nel modo sperato né dalla franchigia, né dai tifosi, né dallo stesso Jones. Un infortunio al piede gli fa saltare l’intera stagione. Torna l’estate successiva, disputa una buona Summer League, ma nel suo stesso draft i Knicks avevano selezionato altre due ali (John Wallace e Walter McCarty); di spazio ce n’è poco, e quindi lo spediscono a Boston. Quindici gare non indimenticabili con i Celtics, dove si fa notare principalmente per aver dato il cinque in un pre-gara a Henry Louis Gates, ospite d’onore dei biancoverdi e stimatissimo professore afro-americano da Harvard, che aveva precedentemente ricevuto rispettosissime strette di mano dagli ossequiosi compagni di squadra. Ma Dontae’ è così: vero, entusiasta, sincero.

Le porte della NBA si chiudono presto. Inizia la trafila delle leghe minori: CBA, ABA, Venezuela. All’improvviso, nell’estate 2001, la svolta. Dall’Italia arriva la chiamata di Napoli, in LegaDue. Fallita la promozione nella stagione precedente, cambiata la proprietà, la squadra partenopea è ambiziosa, e deve sostituire Ira Bowman, volato proprio negli States per cercare fortuna in NBA. Jones sbarca in Italia con tanti dubbi sulla sua integrità fisica, ma il ds Andrea Fadini ha l’occhio lungo. Ci vogliono solo tre partite per convincere gli scettici: contro Borgomanero Jones segna 26 punti e colleziona 9 rimbalzi. Scatta la scintilla, Napoli lo adotta. Il pubblico affolla il palasport di Monterusciello e lo ama non solo per le sue qualità tecniche e per il suo gioco improntato allo spettacolo (in una partita sbaglia un libero, salta per andare a rimbalzo e schiaccia al volo), ma anche per i suoi problemi passati e per la sua storia. Dontae’ è caduto in basso e sta cercando di cancellare il passato per riscattarsi. Napoli – e la Napoli dei canestri – anche. E in una città che vive un rapporto viscerale con i giocatori forti e bizzosi, Jones non può fare eccezione.
Avevo una scimmia sulla spalla: volevo dimostrare alla gente che appartenevo all’NBA e che, ovunque fossi, ero il migliore dei giocatori sul campo. Napoli è stata la cosa migliore che mi sia accaduta in carriera: non dimenticherò mai la gente di là per come hanno accolto me e mia moglie”.

Il riscatto definitivo arriverà nei playoff. Jones li domina: 18.9 punti e 11.5 rimbalzi di media, il 50% da 2 e il 40% da 3. In finale, Napoli si gioca la promozione contro la dominatrice della regular season, Reggio Emilia. Dopo una serie combattutissima si arriva alla decisiva gara-5, che si gioca in Emilia. Dontae’ inizia con il freno a mano tirato: nei primi tre minuti tocca solo una volta il pallone, e il suo tiro finisce sul ferro. Qualcosa non funziona: manca la fascetta.
Ecco, per cercare di capire Dontae’ Jones bisogna parlare della fascetta, che gli veniva solitamente consegnata dopo l’huddle pre-match dall’amico Giampaolo. Durante la settimana, i due si sentono per telefono e Jones in base alle sensazioni decide il colore per la domenica.
Torniamo a Reggio: quel primo tiro è finito sul ferro. Dontae’ guarda tra il pubblico e fa il segno della fascia, che gli viene prontamente fatta avere in panchina durante un timeout, al termine di più passaggi di mano. Jones esce dal minuto di sospensione con la headband bianca in testa, ruba palla a Dell’Agnello e va a schiacciare. Inizia così una delle prestazioni più clamorose viste in Italia: chiude il primo quarto con 15 punti. Il tabellino finale recita 34 punti, 14 rimbalzi, 8 falli subiti, 5 recuperi e 52 di valutazione. Napoli torna in A e a distanza di più di dieci anni lui giura di non aver mai visto quella gara.
La città lo celebra e ne fa il simbolo della campagna abbonamenti per la stagione successiva. Lui, da uomo del “dirty South”, si sente a suo agio nel “dirty South italiano” e vive un rapporto viscerale con la gente. A Potenza, al termine di un torneo di prestagione, alcuni ragazzini si avvicinano. Dontae’ regala ad uno la maglietta, ad uno la fascetta, ad uno il polsino. Ma loro sono tanti: via anche i pantaloncini e le scarpe. Jones è mezzo nudo, circondato da bambini che non hanno ancora avuto un cimelio. Li tranquillizza, si allontana un attimo e va dai compagni di squadra: nessuno tornò a mani vuote, quella sera. Perché Jones è così, sempre pronto ad aiutare gli altri, ma con valori ben saldi, come la fedeltà alla moglie Jamelia. Non a caso quella volta che, a Napoli, ospitò per un mese una spogliarellista a casa sua, la signorina dormiva nel letto e lui rigorosamente sul divano.

La stagione inizia, e Jones non sembra soffrire l’impatto con la massima serie. Viaggia a 14 punti e 7.6 rimbalzi di media, con il 42% da 3. Segna 27 punti in 21 minuti a Pesaro, in diretta tv, tirando 7/8 da 3. Al termine di quella partita, viene sorteggiato per l’antidoping.
Mi sono rilassato, credevo di avercela fatta. Invece mi sono lasciato andare a quei comportamenti tipici da ragazzo che già mi costarono la mia migliore opportunità con i Knicks. Non posso dare la colpa a nessuno, se non a me stesso: non ero un bad guy e tutti mi volevano bene, ma a volte ci si infila in una buca da cui si può uscire solo con le proprie forze. Ero troppo rilassato e ho lasciato che alcune cose prendessero la piega sbagliata”.
La notizia della squalifica gli arriva mentre è negli States, in permesso. Cannabis.
Chiede di poter tornare a Napoli per scusarsi con compagni e tifosi. Al suo ingresso nel palasport riceve un’ovazione.
A quel punto la sua carriera imbocca la parte discendente della parabola: prova a riprendersi in Porto Rico, poi ritenta l’avventura europea all’Apollon (26 gare, 13 di media). Viene accostato a Roseto nel 2004, ma non se ne fa nulla. Per lui c’è l’Estremo Oriente: Corea del Sud e Cina, dovescherza gli avversari e segna più di 30 punti a partita. Poi Messico, infine appende le scarpe al chiodo.
Intraprende la carriera di rapper e di produttore, con il nome di Mr. 615“La musica è un hobby, la pallacanestro è quello che sono veramente. Ora insegno ai ragazzi il gioco del basket e il gioco della vita”. Per spiegare loro che, quando commetti un errore o quando la sorte si è accanita contro di te, puoi sempre trovare la forza di recuperare ed imboccare la strada giusta. Lo sa bene Dontae’, una vita caratterizzata da bivi e da decisioni, giuste e sbagliate. Da tante cadute e dalla capacità di rialzarsi e di superarle, con caparbietà e con quella faccia tosta segnata da un sorriso a trentadue denti.


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