martedì 2 giugno 2015

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domenica 17 febbraio 2013

Crossroads: Dontae’ Jones, una vita al bivio


Scritto per HoopsDemocracy

Down to the crossroads, fell down on my knees.
Asked the Lord above for mercy, “Save me if you please.”
(Cream - Crossroads, tratta dal Cross Road Blues di Robert Johnson)
L’uomo deve scegliere. In questo sta la sua forza: il potere delle sue decisioni.
(Paulo CoelhoMonte Cinque, 1996)

Cadere è facile, rialzarsi è difficilissimo. Figuriamoci farlo più volte.
Iniziamo dalla caduta. Dontae’ Antijuane Jones è un ragazzo che gioca da junior nella squadra di basket della Stratford High School. Dontae’ (con l’apostrofo, per volere della madre), come gran parte dei giovani del Sud, era cresciuto seguendo i dettami del Dio Football sotto la guida del padre, suo primo istruttore. Ma aveva presto scoperto il basket, giocando con la gente del vicinato.
Il ragazzo ha talento ma si infortuna al ginocchio ed è costretto a saltare la stagione. Depresso per l’impossibilità di poter giocare, abbandona gli studi e sbarca il lunario preparando il pollo in una catena di fast food, il Kenny Rogers Toaster.
In certi contesti, il rischio di trovarsi in mezzo ad una strada, con tutte le conseguenze del caso, è molto alto. Ma a Nashville la polizia ha promosso la nascita di una lega, la Midnight League, finalizzata proprio a tenere i ragazzi lontani da certe situazioni problematiche. Si gioca di notte, e si cerca di far capire ai giovani a rischio che ci sono altre strade oltre a quelle del crimine. Ristabilitosi dall’infortunio, Jones di giorno trincia polli e la sera gioca a basket sui campi della lega.“Giocare in quel contesto mi ha permesso di mettere in mostra le mie abilità, anche se ero tra i più giovani in campo”, spiega.
Lo nota Kindell Stephens, in passato Sports Information Director a Tennessee State, che lo avvicina e lo convince ad affrontare il GED test, l’equivalente di un diploma di High School. Jones lo supera e per lui si spalancano le porte dello Junior College di Northeast Mississippi State. E’ il 1993.
In campo Dontae’ domina, con la sua elevazione da 40 pollici (circa un metro) e il suo tremendo bagaglio tecnico: il primo anno le medie parlano di 25 punti e 11 rimbalzi; nel secondo si migliora (28.7+13.3). In entrambe le stagioni è uno Junior College All-America. Le sue prestazioni fanno notizia, tanto che tra il pubblico inizia a fare capolino Richard Williams, coach di Mississippi State. E proprio di fronte a lui Jones chiude una partita con 52 punti, 21 rimbalzi, e una netta sensazione di onnipotenza. Williams è incantato, vuole allenare quel ragazzo.
Ma c’è un problema: come spesso accade in quella particolare zona grigia che c’è nel basket NCAA, Jones ha trascurato gli studi. “Pensavo che tutto quello che dovessi fare era giocare a basket, e loro ti avrebbero fatto andare avanti”, ricorda. Necessita di 36 crediti per cambiare ateneo ed essere eleggibile: un altro bivio, un’altra sfida.
Dontae’ non si dà per vinto, e passa l’estate sui libri per poter raggiungere l’obiettivo: ottiene 21 crediti a Northeast Mississippi e il resto in corsi per corrispondenza a Southern Miss, creando un precedente al quale la NCAA rimedierà successivamente, con una regola che oggi porta proprio il suo nome. Qualche anno dopo, un’insegnante di psicologia, Peggy Wroten, farà causa agli amministratori di Northeast Mississippi, accusandoli di averla licenziata perché si era rifiutata di cambiare i voti di Jones. La professoressa vincerà la causa.

Jones si trasferisce così a Mississippi State, per affrontare con i Bulldogs la stagione 1995/1996. L’ateneo non ha una tradizione cestistica di alto livello, a parte una storica qualificazione alle Sweet Sixteen del 1963. Ma l’ossatura di quei Bulldogs è molto buona, con la guardia Darryl Wilson, tiratore micidiale che vedremo in Italia (Livorno, Ragusa, Osimo, Scafati, Montecatini) e il centro Erick Dampier, futura pick numero 10 al draft NBA, lega nella quale militerà per 16 anni.
I Bulldogs iniziano la stagione agevolmente (8-1), ma quando iniziano le partite contro le avversarie di conference qualcosa non va per il verso giusto. Ne perdono 4 su 7 e terminano la stagione regolare con un record di 10-6. Nonostante tutto, Jones si integra bene (14.7 punti e 6.8 rimbalzi): “Conoscevo i ragazzi della squadra già quando andavo allo Junior College. Poi mi sono trasferito lì e loro erano sicuri – e anche io lo ero – che fossi il pezzo mancante per una grande stagione. Sai, a volte si crea quell’atmosfera speciale, come poi mi è successo anche a Napoli, con un gruppo di ragazzi bravi che insieme possono essere grandi”.
Coach Williams concorda, seppure con qualche eccezione. “E’ il giocatore di basket con più talento che abbia mai allenato. La sua capacità di relazionarsi con gli altri ha aiutato molto me e la nostra squadra: è uno di quelli che la gente descriverebbe come spirito libero. Ma ci sono delle volte in cui vorresti strozzarlo perché non fa quello che tu gli chiedi”.
Al torneo di Conference si scrive la storia dell’ateneo: sconfitte Auburn e Georgia, la finale è contro i Kentucky Wildcats di Rick Pitino e Jim O’Brien. Li chiamano “The Untouchables”. Mississippi State vince 84-73, contro una squadra composta da nove futuri giocatori NBA. MVP del torneo, neanche a dirlo, è Dontae’ Jones, autore di 28 punti e 11 rimbalzi nella gara decisiva. Touchables.
Al torneo NCAA i Bulldogs continuano a vincere: si sbarazzano di Virginia Commonwealth e Princeton. Nelle Sweet Sixteen fanno fuori 60-55 la Connecticut di Ray Allen. Al turno successivo ad essere spazzata via è Cincinnati, con Jones ancora protagonista (23+13): i Bulldogs approdano alla loro prima Final Four della storia, dove perderanno con Syracuse. A vincere il titolo sarà quella Kentucky battuta nella finale della SEC.

A questo punto il nome di Dontae’ Jones è sulla bocca di tutti, e la sua storia sulle pagine dei giornali. Impossibile non resistere alle tentazioni dell’NBA. Tra le squadre che gli offrono un workout ci sono i Lakers. La dirigenza gialloviola gli contrappone – in un provino che entrerà nella storia del gioco – un ragazzino appena uscito dall’high school: Kobe Bryant.
Di quel tryout si è discusso molto, ma credo che lo stesso Bryant non abbia mai avuto la possibilità di parlarne direttamente. A quel provino eravamo noi due, Jerry West, Mitch Kupchak e Larry Drew. Fu molto, molto competitivo, e mi piacerebbe avere la versione di Kobe su ciò che successe a Inglewood. Alcuni reports dicono che lui dominò, ma sono decisamente falsi: entrambi abbiamo dato il massimo. Fu un grande workout anche per me, perché mi permise di vedere in prima persona uno dei più grandi giovani giocatori di basket del pianeta. Mi divertii molto a stare in campo con lui e sono sicuro che per Kobe fu lo stesso. Fu un grande workout, di sicuro non fui spazzato via dal campo e potrei dirlo ovunque e sempre, anche davanti a Kobe: nessuno fu battuto pesantemente”.
Come andarono realmente le cose non ci è dato saperlo, ma in quel momento non cambia solo la storia della vita di due giocatori e di due uomini, ma dei successivi 15 anni di NBA.

Rutherford, New Jersey. E’ il 26 giugno 1996, la notte di uno dei Draft NBA con la maggiore quantità di talento della storia. Stringono la mano a David Stern giocatori del calibro di Allen Iverson, Marcus Camby, Shareef Abdur-Rahim, Stephon Marbury, Ray Allen, Antoine Walker. La 13sima pick è per un ragazzino di nome Kobe Bryant. Dontae’ Jones viene scelto alla numero 21 dai New York Knicks. Evento rarissimo: alla chiamata l’esigente pubblico newyorkese esulta. Ma le cose non andranno nel modo sperato né dalla franchigia, né dai tifosi, né dallo stesso Jones. Un infortunio al piede gli fa saltare l’intera stagione. Torna l’estate successiva, disputa una buona Summer League, ma nel suo stesso draft i Knicks avevano selezionato altre due ali (John Wallace e Walter McCarty); di spazio ce n’è poco, e quindi lo spediscono a Boston. Quindici gare non indimenticabili con i Celtics, dove si fa notare principalmente per aver dato il cinque in un pre-gara a Henry Louis Gates, ospite d’onore dei biancoverdi e stimatissimo professore afro-americano da Harvard, che aveva precedentemente ricevuto rispettosissime strette di mano dagli ossequiosi compagni di squadra. Ma Dontae’ è così: vero, entusiasta, sincero.

Le porte della NBA si chiudono presto. Inizia la trafila delle leghe minori: CBA, ABA, Venezuela. All’improvviso, nell’estate 2001, la svolta. Dall’Italia arriva la chiamata di Napoli, in LegaDue. Fallita la promozione nella stagione precedente, cambiata la proprietà, la squadra partenopea è ambiziosa, e deve sostituire Ira Bowman, volato proprio negli States per cercare fortuna in NBA. Jones sbarca in Italia con tanti dubbi sulla sua integrità fisica, ma il ds Andrea Fadini ha l’occhio lungo. Ci vogliono solo tre partite per convincere gli scettici: contro Borgomanero Jones segna 26 punti e colleziona 9 rimbalzi. Scatta la scintilla, Napoli lo adotta. Il pubblico affolla il palasport di Monterusciello e lo ama non solo per le sue qualità tecniche e per il suo gioco improntato allo spettacolo (in una partita sbaglia un libero, salta per andare a rimbalzo e schiaccia al volo), ma anche per i suoi problemi passati e per la sua storia. Dontae’ è caduto in basso e sta cercando di cancellare il passato per riscattarsi. Napoli – e la Napoli dei canestri – anche. E in una città che vive un rapporto viscerale con i giocatori forti e bizzosi, Jones non può fare eccezione.
Avevo una scimmia sulla spalla: volevo dimostrare alla gente che appartenevo all’NBA e che, ovunque fossi, ero il migliore dei giocatori sul campo. Napoli è stata la cosa migliore che mi sia accaduta in carriera: non dimenticherò mai la gente di là per come hanno accolto me e mia moglie”.

Il riscatto definitivo arriverà nei playoff. Jones li domina: 18.9 punti e 11.5 rimbalzi di media, il 50% da 2 e il 40% da 3. In finale, Napoli si gioca la promozione contro la dominatrice della regular season, Reggio Emilia. Dopo una serie combattutissima si arriva alla decisiva gara-5, che si gioca in Emilia. Dontae’ inizia con il freno a mano tirato: nei primi tre minuti tocca solo una volta il pallone, e il suo tiro finisce sul ferro. Qualcosa non funziona: manca la fascetta.
Ecco, per cercare di capire Dontae’ Jones bisogna parlare della fascetta, che gli veniva solitamente consegnata dopo l’huddle pre-match dall’amico Giampaolo. Durante la settimana, i due si sentono per telefono e Jones in base alle sensazioni decide il colore per la domenica.
Torniamo a Reggio: quel primo tiro è finito sul ferro. Dontae’ guarda tra il pubblico e fa il segno della fascia, che gli viene prontamente fatta avere in panchina durante un timeout, al termine di più passaggi di mano. Jones esce dal minuto di sospensione con la headband bianca in testa, ruba palla a Dell’Agnello e va a schiacciare. Inizia così una delle prestazioni più clamorose viste in Italia: chiude il primo quarto con 15 punti. Il tabellino finale recita 34 punti, 14 rimbalzi, 8 falli subiti, 5 recuperi e 52 di valutazione. Napoli torna in A e a distanza di più di dieci anni lui giura di non aver mai visto quella gara.
La città lo celebra e ne fa il simbolo della campagna abbonamenti per la stagione successiva. Lui, da uomo del “dirty South”, si sente a suo agio nel “dirty South italiano” e vive un rapporto viscerale con la gente. A Potenza, al termine di un torneo di prestagione, alcuni ragazzini si avvicinano. Dontae’ regala ad uno la maglietta, ad uno la fascetta, ad uno il polsino. Ma loro sono tanti: via anche i pantaloncini e le scarpe. Jones è mezzo nudo, circondato da bambini che non hanno ancora avuto un cimelio. Li tranquillizza, si allontana un attimo e va dai compagni di squadra: nessuno tornò a mani vuote, quella sera. Perché Jones è così, sempre pronto ad aiutare gli altri, ma con valori ben saldi, come la fedeltà alla moglie Jamelia. Non a caso quella volta che, a Napoli, ospitò per un mese una spogliarellista a casa sua, la signorina dormiva nel letto e lui rigorosamente sul divano.

La stagione inizia, e Jones non sembra soffrire l’impatto con la massima serie. Viaggia a 14 punti e 7.6 rimbalzi di media, con il 42% da 3. Segna 27 punti in 21 minuti a Pesaro, in diretta tv, tirando 7/8 da 3. Al termine di quella partita, viene sorteggiato per l’antidoping.
Mi sono rilassato, credevo di avercela fatta. Invece mi sono lasciato andare a quei comportamenti tipici da ragazzo che già mi costarono la mia migliore opportunità con i Knicks. Non posso dare la colpa a nessuno, se non a me stesso: non ero un bad guy e tutti mi volevano bene, ma a volte ci si infila in una buca da cui si può uscire solo con le proprie forze. Ero troppo rilassato e ho lasciato che alcune cose prendessero la piega sbagliata”.
La notizia della squalifica gli arriva mentre è negli States, in permesso. Cannabis.
Chiede di poter tornare a Napoli per scusarsi con compagni e tifosi. Al suo ingresso nel palasport riceve un’ovazione.
A quel punto la sua carriera imbocca la parte discendente della parabola: prova a riprendersi in Porto Rico, poi ritenta l’avventura europea all’Apollon (26 gare, 13 di media). Viene accostato a Roseto nel 2004, ma non se ne fa nulla. Per lui c’è l’Estremo Oriente: Corea del Sud e Cina, dovescherza gli avversari e segna più di 30 punti a partita. Poi Messico, infine appende le scarpe al chiodo.
Intraprende la carriera di rapper e di produttore, con il nome di Mr. 615“La musica è un hobby, la pallacanestro è quello che sono veramente. Ora insegno ai ragazzi il gioco del basket e il gioco della vita”. Per spiegare loro che, quando commetti un errore o quando la sorte si è accanita contro di te, puoi sempre trovare la forza di recuperare ed imboccare la strada giusta. Lo sa bene Dontae’, una vita caratterizzata da bivi e da decisioni, giuste e sbagliate. Da tante cadute e dalla capacità di rialzarsi e di superarle, con caparbietà e con quella faccia tosta segnata da un sorriso a trentadue denti.


lunedì 11 febbraio 2013

La Final Eight (comodamente) vista dal divano



E' stata una bella Final Eight. Tanto equilibrio in campo (solo una partita finita con un distacco superiore ai dieci punti), prestazioni individuali notevoli, alcuni italiani in rampa di lancio.
Siena vince, meritatamente, per la quinta volta consecutiva, mettendo a tacere chi pensava che il ciclo fosse concluso solamente perché non domina più il campionato come negli scorsi anni. E infatti tutte e tre le partite della Mens Sana sono state sofferte: con Reggio Emilia l'accelerazione è arrivata nel terzo quarto, con Sassari è stato necessario un ultimo periodo da 33 punti, con Varese invece è stato necessario contenere il ritorno della Cimberio dopo quel 18-0 iniziale che aveva indirizzato subito la partita sui binari giusti. Una sfuriata senza precedenti, spiegabile in buona parte con l'attitudine della Monte dei Paschi alla vittoria. Ad accomunare le tre vittorie, le prestazioni di Daniel Hackett, giustamente premiato MVP del torneo, e sempre più mister Quarto quarto: 6 punti, 4 rimbalzi e 2 assist nei minuti finali con Reggio Emilia; 12 punti (e 20 di valutazione!) nel periodo finale con Sassari; la tripla decisiva nella finale, che ha ricacciato indietro una Varese che aveva impedito ai campioni d'Italia di trovare il canestro per i primi sette minuti della quarta frazione di gioco.
Hackett, ma non solo: Bobby Brown ha scollinato due volte quota 20 punti, Janning ha saputo ritagliarsi un ruolo fondamentale (e con lui in campo la squadra gioca meglio), Moss ha risposto presente, Ress non ha giocato in finale ma è stato determinante con il suo 3/4 da 3 contro Sassari. La solita Siena: difesa, talento, ma soprattutto collettivo.
Varese ha vissuto un primo quarto da incubo, poi è stata bravissima a non uscire totalmente dal match grazie al talento di Mike Green. E' mancato Banks (3.5 di media tra semifinale e finale, dove ha chiuso con un bell'ovetto) e, a differenza della semifinale, non è arrivato il contributo inatteso di Sakota, che contro Roma aveva saputo approfittare alla grande (21 punti, 5/7 da 3) degli spazi concessi sul perimetro dalla difesa di Calvani, che aveva preferito chiudere l'area per scoraggiare i post-up di Green e le penetrazioni di Banks. Non ne facciamo una colpa all'allenatore capitolino: la strategia aveva un senso e sarebbe anche stata vincente, senza la prestazione del lungo serbo. Comunque occhio a questa Varese, soprattutto se l'anno prossimo conserva il core della squadra.
Tra le semifinaliste, Roma è piaciuta con i suoi alti e bassi ben evidenziati in campo da Bobby Jones. La crescita di Datome ormai è nota, e sa rendersi utile anche quando non trova il canestro. Servirebbe una riserva valida per Lawal, ma i soldi son quelli. Sassari ha mostrato i suoi soliti pregi e difetti: ingiocabile quando l'attacco gira, ha visto mancare il contributo dei Diener nel momento decisivo: 2 punti totali per Travis e Drake nel quarto quarto con Siena. Per Thornton sono finiti gli aggettivi.
Se per Reggio Emilia e Brindisi, entrambe neopromosse, già la partecipazione alla Coppa era una grande vittoria (e comunque hanno fatto una dignitosissima figura), le delusioni sono da ricercare in Lombardia. Fuori subito Cantù, che priva di Tyus ha sofferto tremendamente a rimbalzo contro Roma (39-23 il conto, con 18 rimbalzi offensivi a 2 per i giallorossi) e ha vanificato una gara in cui la squadra ha tirato 14/25 da 3. Restiamo dell'idea che sostituire Markoishvili con Mancinelli sia come passare da Penelope Cruz ad Arisa, ma il tempo per lavorare c'è e il manico è quello giusto, se non ci sono troppe distrazioni dalla Grecia.
Milano fallisce un altro obiettivo e pensa all'ennesimo avvicendamento di mercato (si parla di un addio a Fotsis). Langford predica nel deserto e Bourousis continua ad avere un minutaggio da ragazzino da non bruciare più che da fuoriclasse quale è. Ma, si sa, era colpa di Frates.


P.S.: Dell'atmosfera sul posto preferiamo ne parli chi c'era. Dalla televisione si vedevano troppi, troppi spazi vuoti, per quello che dovrebbe essere uno degli eventi cestistici più importanti della stagione. E' vero che c'è la crisi e la gente non lavora più, ma forse sarebbe il caso di far slittare l'inizio della prima partita della giornata dalle 17.45 almeno alle 18.30. 

lunedì 21 gennaio 2013

Quando l'NBA va alle urne

La stagione NBA entra nel pieno, ma come sapete in Italia al momento l'attenzione è focalizzata sulle prossime consultazioni elettorali.
Nel corso di una camminata sotto la pioggia le due cose si sono fuse magicamente. Ecco il risultato. Nella produzione di questo pezzo non sono state utilizzate sostanze dopanti. Giuro.

"Presidente" uscente, amato e coccolato dai poteri forti dell'NBA grazie agli introiti che è in grado di generare, LeBron James è Mario Monti, e chi vorrà fare il bis dovrà necessariamente vedersela con lui e con i suoi alleati, tra i quali bisogna annoverare il traditore Ray Allen (nella parte di Gianfranco Fini). Potrebbe non fare il bis, ma in un modo o nell'altro vince sempre lui.

Non è in grado di far eccitare le masse ma è solido e supportato da una squadra in grado di competere. Non è ancora il momento del ricambio generazionale per Tim Duncan (Pierluigi Bersani). Piccolo problema: se il centrosinistra, una volta vinte le elezioni, non è mai riuscito a durare per tutta la legislatura, così gli Spurs non sono mai riusciti a bissare la vittoria dell'anello.

Piace a molti, ma qualcuno pensa che non sia ancora il suo momento perché troppo giovane. Ha avuto l'occasione per proporsi alla ribalta nazionale, ma è stato sconfitto in finale. Intanto può consolarsi con consensi sempre crescenti e qualche riconoscimento a livello individuale. Stiamo parlando di Kevin Durant o di Matteo Renzi?

Vabbè, questa è facile. Lo si ama o lo si odia, non ci sono vie di mezzo. Il vecchio squalo che sembrava ormai morto ed è tornato per un ultimo disperato tentativo, dopo aver dominato gli scenari degli ultimi anni. Kobe Bryant è Silvio Berlusconi: i suoi fan lo venerano e quando le cose vanno male danno la colpa agli alleati. Gli hater invece gli attribuiscono anche il peccato originale di Adamo ed Eva. Sono più numerosi i tiri del primo o le presenze in televisione del secondo?

Attorno a questi, si muovono personaggi minori ma che comunque hanno un ruolo da sottolineare. I Los Angeles Clippers di Chris Paul, totalmente inesperti a competere ad alti livelli, ma protagonisti di un'ascesa considerevole e spettacolare, con highlights che sono cliccatissimi sui social network, ricordano il boom (anche su internet) del MoVimento 5 Stelle. Vedremo se alla prova dei fatti l'inesperienza si farà sentire.
Mark Cuban per anni è stato l'Antonio Di Pietro dell'NBA: contro tutto e tutti. I Mavericks negli ultimi due anni hanno bruciato quanto fatto di buono così come l'Italia dei Valori ha precipitosamente perso consensi.
I Boston Celtics, anche per una questione cromatica, sono come la Lega Nord: in un modo o nell'altro sono sempre lì, nulla li scalfisce. E in un modo o nell'altro bisogna avere a che fare con loro ed i loro tifosi, anche se al momento sono in una fase di transizione dal vecchio (Garnett/Bossi, con il trash talking e gli insulti) al nuovo (Rondo/Maroni).
Divertente, in grado di coinvolgere i giovani, con tanti ideali e soprattutto senza una stella vera: il gioco dei Denver Nuggets è un po' comunista. Fatichiamo ad associare George Karl a Nichi Vendola, ma potrebbero avere una cosa in comune: al momento di agire la troppa democrazia può creare delle difficoltà.
Essenziali, non bellissimi da vedere, con un leader barbuto: i Memphis Grizzlies ricordano Fermare il Declino, il movimento di Giannino. Occhio però, ai playoff potrebbero non superare lo sbarramento.
Arancioni come il movimento di de Magistris, nessuno si aspettava che i Knicks di quest'anno potessero andare così forte. Allo stesso modo, pochi mesi fa nessuno pensava che Rivoluzione Civile di Ingroia potesse - almeno da sondaggi - superare lo sbarramento.Ma la convivenza Anthony/Stoudemire rischia di essere difficile come quella tra Ingroia e il sindaco napoletano...


giovedì 3 gennaio 2013

Caro 2013

Caro 2013,
ci aspettiamo molte cose da te. Quello appena passato è stato un anno particolare. L'anno di LeBron James, innanzitutto, che in pochi mesi ha vinto il suo primo anello e si è portato a casa anche l'oro olimpico. L'anno in cui la Nazionale ha convinto in seguito ad una incredibile estate di successi. La Linsanity. L'anno della fine del ciclo di Siena e della possibile apertura di uno nuovo. E un sacco di altra robetta, bella e brutta.


Cosa ti chiediamo, caro 2013?
1) LeBron è fortissimo e tutto quello che vuoi tu, però non sarebbe male che a vincere il titolo quest'anno sia la squadra di quel ragazzo che sta facendo una stagione da 28 punti di media tirando con percentuali superiori al 50% da 2, il 40% da 3 e il 90% ai liberi. Insomma, è arrivato il momento di Kevin Durant, no?
2) In tema Oklahoma City, non è che potresti iniziare a sollecitare qualche tuo collega (tipo il 2014, il 2015) per il ritorno della NBA a Seattle? No, perché le tre puntate di Buffa che parlava del basketball nella città della pioggia mi hanno strappato il cuore.
3) Restituiscici un Derrick Rose sano e magari vincente. Il futuro della lega passa da lui. Poi, se ti avanza un po' di salute da elargire, ci sarebbe sempre quel ragazzo... eh, quello che giocava a Portland... sì, ora è a Minneapolis, si chiama Brandon, ha provato a rientrare ma ora è di nuovo fermo.
4) Non ti chiedo di levare qualche anno dalla carta di identità di Tim Duncan, perché magari non sarebbe la stessa cosa. Ma preservalo perché possa ritirarsi all'età di Dikembe Mutombo.
5) Non ti chiedo neanche una squadra di basket a Napoli, perché le ultime che mi hanno portato i tuoi colleghi (sì, l'eredità dei governi precedenti...) si sono rotte subito. Mettiamola così: portamela solamente se ha una garanzia di 7 anni, tipo le auto. 
6) Già che ci sei, ti dispiacerebbe fare in modo che si decida cosa fare con un basket italiano sempre più morente? Quest'estate sono scomparse tante squadre, e dei tre campionati principali due te li sei ritrovati già monchi (LegaDue a 15 e DNA a 18, ma sulla carta dovevano essere 20). Invece di riformare i campionati, non è il caso di riformare proprio uno sport che è alla canna del gas? Magari a partire dagli uomini. Ti suggerisco due nomi: Mario Boni e Gianmarco Pozzecco. Sono sempre state due teste calde, ma hanno idee ed ognuno di loro, nel proprio settore, sta dimostrando di poter fare di più di tanti giganti buoni. Io scorro l'elenco dei candidati al Consiglio Federale e vedo sempre gli stessi nomi...
7) E' l'anno degli Europei: preserva Gigi Datome, Achille Polonara, Daniel Hackett.
8) Fa che Milano continui ad essere Milano anche quest'anno, con i suoi ingaggi stellari e i dodici cambi in corsa. Sennò come ci divertiamo?
9) Non sarebbe bello rivedere gli Hoosiers vincere il titolo NCAA?
10) Un'ultima cortesia: inverti questo trend per il quale l'informazione cestistica italiana assomiglia sempre di più a quella calcistica. Noi appassionati siamo per gli approfondimenti, le analisi fatte davanti ad una birra o a un piatto di pasta, magari con un po' di ironia. I finti scoop urlati lasciamoli ad altri.

giovedì 20 dicembre 2012

Napoli muore (ancora)

Un palasport in rovina per un movimento in rovina

Napoli è morta. Ancora una volta. E sinceramente si inizia a perdere il conto.
Dall'esclusione della squadra di Maione ad oggi si sono succedute la Nuova Sebastiani Napoli, la Nuova Pallacanestro Napoli, il Napoli Basketball, il Nuovo Napoli Basket.
Delle quattro società (in cinque anni), solo il Napoli Basketball ha terminato la stagione, e ha dovuto creare questa strana creatura a due teste con la Pallacanestro Sant'Antimo nella speranza di non morire. Anche in questo caso, nulla da fare, con la squadra esclusa dopo sole tre giornate. Un record difficile da battere.

C'è poco da commentare, ci sarebbe tanto da scrivere ma al momento preferisco lasciar perdere.
Queste esperienze sono nate da basi diverse: c'è chi ha provato a partire dal basso, chi a coinvolgere i tifosi. Il comune denominatore è il loro fallimento, che lascia l'impressione che a Napoli sia impossibile fare basket, in una città dove tra l'altro il calcio monopolizza l'attenzione. In un movimento che necessiterebbe di riforme radicali per poter essere nuovamente appetibile per imprenditori seri.
La chiave è il Mario Argento, dicono in città. Ma la sensazione è che, ormai, sia diventato una giustificazione.



venerdì 14 dicembre 2012

Può un canadese salvare Los Angeles?

Può un uomo solo salvare una squadra allo sbando, con un impatto tale da risolvere ogni problema del team, anche quello per il quale l'uomo in questione (e lo stesso team) è decisamente carente? Perché è di questo che stiamo parlando.

Nash indica a Gasol il numero delle penetrazioni tenute dalla difesa Lakers

La premessa è nebulosa, quindi andiamo con ordine. L'uomo in questione è Steve Nash. La squadra, i Los Angeles Lakers modello inverno 2012. Ossia una squadra senza fiducia, con un record decisamente negativo, già condannata a dover rincorrere l'ottavo posto nel competitivissimo ovest.
Il play canadese può sicuramente portare una svolta considerevole nei meccanismi lacustri. E' il compagno di squadra ideale, uno di quei giocatori in grado di migliorare i compagni già solo con la sua presenza in campo, figuriamoci se gli metti la palla in mano, lo affianchi allo scorer più letale dei tempi moderni, magari ci metti quel lungagnone spagnolo barbuto a rollare e due figuranti negli angoli.
Benissimo. Ma poi c'è da difendere, e là subentrano i problemi, perché il canadese è tutt'altro che un difensore rispettabile, e si andrà ad inserire in qualcosa che, ad oggi, risulta difficile chiamare difesa.

Il primo tempo della gara giocata dai Lakers a New York è l'emblema di quanto scritto. Male nelle transizioni difensive, dove il primo a trottare pigramente è il leader della squadra. Malissimo nelle rotazioni sul perimetro, con tanti tiri comodi - e per comodi intendo con anche quattro metri di spazio - concessi ad una squadra che da 3, per usare un eufemismo, tira benino. Peggio che malissimo a centro area, dove Robert Sacre (sì, Robert Sacre) è risultato essere il migliore dei tre lunghi negli aiuti. Jordan Hill non lo consideriamo proprio, ma il più volte proclamato (e autoproclamatosi) miglior difensore NBA, con tutte le scusanti dei problemi fisici, non è riuscito a fornire quel minimo di intimidazione in grado di scoraggiare le scorribande di Felton & co.

La shot chart dei Knicks nel primo tempo

A questo punto la questione diventa una e semplice. Può, al suo ritorno, il rispettosissimo Steve Nash (e Gasol, passato da capro espiatorio a uomo rimpianto tra le lacrime) generare un "entusiasmo offensivo" tale da mascherare le tante carenze difensive di questi Lakers, che dovrebbero acuirsi ulteriormente con il canadese in campo? Riuscirà a migliorare così tanto l'attacco gialloviola da fare sì che anche la difesa migliori? Da questi interrogativi passano le ambizioni dei Lakers. 

domenica 9 dicembre 2012

Belinelleide: dal primo ferro ai Chicago Bulls

Non sono mai stato un ammiratore di Marco Belinelli. Anzi..
Ricordo gli inizi in serie A, promessa prima della Virtus e poi soprattutto della Fortitudo protagonista di una serie di playoff tesa anche oltre i limiti contro la "mia" Carpisa Napoli. Aquei tempi già si diceva che il livello del campionato fosse sceso, ma ad oggi la rosa di Bologna e soprattutto quella di Treviso vincitrice dello scudetto appaiono mostruose. Chiusa parentesi, le cifre di Belinelli in quella serie:
20 punti realizzati alla prima in casa, 8 a Napoli, 23 a Bologna, 3 a Napoli e poi una MOSTRUOSA gara 5 a Bologna, con 34 punti e 8/14 da 3. Dopo gara 5, Belinelli dichiarò di aver rischiato la vita a Napoli, meritandosi ancora maggiore simpatia da parte del pubblico partenopeo. Inoltre, un certo scetticismo (seppur solo parzialmente confermato dalle medie totali) sul suo rendimento fuori casa iniziava a serpeggiare.
A vent'anni comunque il ragazzo iniziava ad attirare più antipatie che simpatie non solo a Napoli. Non erano in discussione né il talento, né le capacità come tiratore. In generale però, un atteggiamento non proprio umile, una faccia.. un po' così, facevano sì che buona parte dell'Italia godesse quando per Marco risuonava metallico il primo ferro.

Sono bravo e me ne frego se mi puzzano le ascelle.
Estate 2006: Belinelli si consacrò come prospetto NBA segnando 25 punti contro la nazionale americana ai mondiali. Scisceschi, per sua stessa ammissione, l'avrebbe accolto a braccia aperte a Duke. Invece no, ultimo anno italiano, dove il nostro diventa top scorer di una non memorabile Fortitudo Bologna. Inoltre, iniziava un po' a serpeggiare un certo atteggiamento da fenomeno, che lo portava a spettacolarizzare un po' certe situazioni: i numerosi fadeaway non richiesti e il chiodo fisso NBA facevano di "Tu vuò fa l'Americano" la colonna sonora ideale delle gesta del bolognese.
Il dado era tratto, Marco andò in America; 18esima chiamata ai Warriors del mefistofelico Don Nelson. Il pensiero collettivo era "che figata per Marco, tiratore in una squadra che nasce e muore col tiro da fuori".

Mi è proprio andata di culo...
Peccato che, nonostante la compatibilità "tecnica" (due virgolette sono poche, lo so, si parla sempre dei Warriors di Nelson), non si fosse tenuto conto dell'idiosincrasia del coach per i rookies. "Mr Nelson, quanti minuti giocherà Belinelli?" "Minuti?!" la lapidaria risposta. Traduzione, 33 partite giocate, 7 minuti e 3 punti scarsi di media.
La stagione successiva, 2008/2009, Marco vide più il campo. Niente di eccezionale, ma mostrò dei progressi nella gestione del pick'n'roll, soluzione che raramente eseguiva quando giocava in Europa. Marco fu poi spedito a Toronto, per formare sul campo quella Italian Connection in una città strapiena di Italiani. Un disastro.
Arrivò così la prima svolta: anno 2010/2011, New Orleans, alla corte di Monty Williams e Chris Paul. Diciamo che se Belinelli dovesse avere dei figli maschi, Chris e Monty, ma anche Paul e già che ci siamo William sarebbero nomi da prendere seriamente in considerazione.

Coach, gli fai tu da padrino al battesimo?

Coach Williams vide in lui non la presunta star tendenzialmente fighetta che aveva lasciato Bologna e che da allora poco aveva fatto per far cambiare idea a riguardo, ma un lavoratore che mantiene un basso profilo e che non si lamenta letteralmente mai. Magari in questo, ipotizziamo noi, aver condiviso lo spogliatoio con il Capitano Jack ha aiutato (lo immaginiamo, nella sua stagione da rookie, non molto diverso da Lo Storpio della grandiosa scena di Pulp Fiction). Inoltre, giocare con Chris Paul rende le cose un po' più semplici.
Bilancio della stagione 10/11: 69 partite in quintetto, 24,5 minuti di media, 41% abbondante da 3 e quasi 11 punti di media; inoltre, nonostante non sia mai stata una specialità della casa, una difesa generalmente accettabile.
Alla fine della stagione 2011, Belinelli è di fatto un giocatore NBA. Pensiero dell'Italia cestitstica: "Bravo! E perché non resta in America anziché venire a rompere i coglioni in Nazionale?". Sì, perché in azzurro Marco ha spesso mostrato il peggio di sé, soffrendo forse della discrepanza tra la volontà di voler essere il leader dell'attacco e la totale mancanza di abitudine a giocare in questo modo.

Gioco così male che metto la maschera per non farmi riconoscere

Ho lasciato la Lituania pensando "Belinelli primo nemico", e lo attendevo al varco per la successiva stagione americana, senza il santo Cristiano Paolo a rifornirlo di palloni in angolo per comodi tiri da 3. Belinelli ha giocato una stagione ancora migliore della precedente, al punto da far sostanzialmente ricredere quelli di Buzzerbeaterblog che per lui avevano coniato l'azzeccato sottotitolo: SDENG dal 1986.
Quest'anno la grande occasione, i Bulls di coach Thibodeau, seppur privi di Rose. Inizio da incubo, poi si rompe Rip Hamilton e Marco finisce in quintetto. L'occasione della vita.. e la sta cogliendo.
Cosa è scritto nel futuro di Belinelli? Tranquillo, nella telecronaca, vede per lui un ruolo di "impatto", con minuti limitati, in determinate situazioni della partita. Ma mi chiedo io, perché a questo punto non potrebbe essere un titolare? Il giocatore che gli sta davanti è chiaramente in parabola discendente. Rispetto a Marco non offre né un tiro migliore, in una squadra che ha tanto bisogno di tiro, né una "migliore" fase difensiva.
Forse sarebbe proprio Hamilton a poter garantire un migliore impatto in fasi limitate della gara: anche in contumacia Rose, i Bulls potrebbero sfruttare situazioni di uscita a ricciolo nelle quali Rip è maestro. Togliere Belinelli dal quintetto significherebbe anche perdere il potenziale realizzativo messo in mostra proprio nei primi quarti (come riportato dallo stesso Tranquillo, 85% dal campo nei primi quarti). Inoltre, come esecutore di pick'n'roll, Marco potrebbe ben figurare anche in coppia con Hinrich e/o Deng da 4 a sfruttare eventuali scarichi sul perimetro. In questa specialità i Bulls hanno un notevole interprete in Rose, ma poco altro. Inoltre, il p'n'r di Belinelli richiederebbe delle scelte diverse alle difese rispetto a quello di Rose, il che comunque può essere un vantaggio per l'attacco. In sostanza, non voglio dire che Belinelli sia più "forte" di Hamilton (non ora, figuriamoci quando Hamilton era al top), ma solo che al momento sia più adatto a partire in quintetto.
Come è arrivato a meritarsi tale considerazione, almeno da un osservatore ostile come il sottoscritto? Negli anni NBA Belinelli è dei tre italiani quello che ha affrontato le maggiori difficoltà, ma è stato anche quello che più ha saputo trasformarsi. Sì, proprio come Bargnani! Belinelli ha fatto un bagno di umiltà e lasciando il suo ego fuori degli spogliatoi che, solitamente, di ego sono strapieni. Infine, ha seguito il principio secondo cui se nel mondo NBA vedi una porta socchiusa, non devi bussare ma fiondartici dentro. Dei tre italiani è quello che merita il maggiore rispetto. E MAI avrei pensato di scrivere una cosa del genere.
In nazionale, Belinelli deve ancora trovare la sua dimensione. E' evidente che non abbia le capacità di fare il "playmaker", come ha provato a fare sinora. E' evidente che debba fare un passo indietro, che però non è molto differente da quello che ha fatto in questi anni di NBA. Palla in mano con moderazione, gambe basse in difesa e coinvolgimento offensivo come finalizzatore o "specchietto per le allodole", in modo da liberare i notevoli tiratori di cui disponiamo.
La maturità arriva per tutti, prima o poi. Di certo, giocare da guardia titolare nel palazzo che fu di Michael Jordan, aiuta.

domenica 25 novembre 2012

Lunghi, ma non big men


C'è uno strano filo conduttore che lega le carriere di Dwight Howard e Andrew Bynum. Entrambi sono arrivati in NBA direttamente dall'high school, saltando anni di college che, con il senno di poi (ma anche senza), magari avrebbero favorito una maggiore maturazione tecnica e soprattutto mentale dei due. Entrambi hanno avuto una progressiva crescita che ha fatto pensare a duelli continui sotto i tabelloni per giocarsi qualcosa di importante. Entrambi, ad oggi, hanno perso una buona fetta di credibilità.
E' di queste ore la notizia che Bynum, avvistato recentemente con una oscena capigliatura, è out indefinitely, e si pensa che questo annuncio sia solo un antipasto di quello che verrà: out for the season. Nel contract year. Senza avere ancora disputato una gara con quella franchigia che ha puntato su di lui per ricostruire. E ancora, dopo che si è scoperto che il pivot ex Lakers ha pensato bene di giocare a bowling con le ginocchia che si ritrova.


Andrew, stai per entrare in una valle di lacrime

Anche Dwight Howard quest'estate ha cambiato squadra, mettendo fine ad una stucchevole telenovela che ha di fatto ridotto ai minimi storici i suoi simpatizzanti tra la Lega. Vado via. No, resto ai Magic ma intanto faccio licenziare Stan Van Gundy e faccio anche una figuraccia davanti alle telecamere. No, vado via, mi attende Brooklyn, voglio giocare con Deron. No, finisco ai Lakers, che bello giocare con Bryant. Eh, però volevo giocare a Brooklyn, ma Deron non mi parla più.
Il tutto condito da un atteggiamento sempre meno propenso ad attirare simpatie: dagli infortuni (scioperi?) ai Magic ad un inizio di stagione sottotono a Los Angeles. E' vero, non è ancora al meglio della condizione, ma negli ultimi anni di progressi nel gioco se ne sono visto pochi (oltre a imbarazzanti regressioni,  come ai tiri liberi). In aggiunta, il linguaggio del corpo è preoccupante e Bryant già ha iniziato ad aumentare il numero di conclusioni.
E allora se volete cercare il migliore centro di quest'anno vi suggeriamo di fare un salto in Tennessee...

mercoledì 21 novembre 2012

Aspettando Dirk

E' stata un'estate particolare, quella dei Dallas Mavericks. Battuti dai Nets nella rincorsa a Deron Williams, abbandonati da Jason Terry e Jason Kidd, hanno dato per qualche giorno l'impressione di essere allo sbando, costretti ad una rifondazione che avrebbe comportato la dolorosa rinuncia a Dirk Nowitzki e il definitivo smantellamento di quella squadra che, con il tedesco come pietra angolare, aveva vinto il titolo solo pochi mesi prima.
E invece i Mavericks sono riusciti a trovare un valido piano B, firmando giocatori con voglia di riscatto, senza strapagare presunte stelle e, soprattutto, salvaguardando gli aspetti salariali per ritentare nella prossima estate la corsa ai migliori free agent.
Amnistiato Haywood e il suo poco simpatico contratto, sono arrivati Chris Kaman (annuale da 8mln), OJ Mayo (biennale da 8 mln con player option alla fine di questa stagione), Dahntay Jones (annuale da 2,9 mln), Elton Brand (annuale da 2,1 mln). Tramite trade, i Mavs hanno poi messo le mani sulla PG Darren Collison, anche lui con contratto a breve scadenza, dominante ai tempi di New Orleans in contumacia Chris Paul e poi deludente nella sua esperienza ai Pacers.
Obiettivo dichiarato: fare una buona stagione, centrare i playoff, e poi vediamo l'estate prossima.


Una nuova tegola si è avuta con l'infortunio al ginocchio di Nowitzki, i cui tempi di recupero si stanno progressivamente allungando (ad oggi si parla di metà dicembre). Nessun problema: inizio da 4-1, senza Dirk, senza Kaman, senza Marion, ma con Mayo on fire (due escursioni sopra quota 30), un inaspettato Brendan Wright, un ottimo Collison.
Dopodichè si è saliti sulle montagne russe ed è arrivata la prima serie di sconfitte: al momento, il record è di 6-6.
Si può però fare un primo bilancio di questi Mavericks. 

PLUS
OJ Mayo sta segnando 21.8 punti a partita, tirando con il 49% e un clamoroso 58% da 3. Le sue conclusioni raramente arrivano da distanza minore di cinque metri (prende il 46% dei tiri  da 3 di Dallas), quindi potrà passare dei momenti meno fortunati. Ma al momento è l'arma migliore di questi Mavericks. Nel supplementare della gara (persa) contro i Warriors, ha segnato tutti gli undici punti della squadra. In assenza di Nowitzki, è il leader della squadra assieme a Marion.
Chris Kaman sta vivendo una seconda giovinezza: 15 punti e 8 rimbalzi di media in 28 minuti di impiego. Nei primi quarti Dallas tende ad affidarsi al suo centro amante delle armi e della caccia. Inizialmente partiva dalla panchina con Wright titolare, ma le carenze a rimbalzo dell'ex UNC hanno convinto Carlisle a cambiare le carte in tavola.
Honorable mentions: Vince Carter (sì, lui), Jae Crowder, che ha dimostrato di saper tenere il campo per lunghi periodi.

MINUS
Elton Brand. Santoddio Elton, non ci siamo. 6+5 per l'ex Philadelphia ma soprattutto il 36% al tiro.
Jared Cunningham. Presto per bocciarlo, ma ad oggi è una scelta buttata in un ruolo dove ci sono già parecchi enigmi (ne parliamo dopo).
Brendan Wright. Aveva inizato la stagione alla grande: quintetto, sei gare consecutive in doppia cifra di punti. Poi qualcosa si è rotto: nove minuti contro Minnesota, DNP con Washington e minutaggi ridotti ai minimi termini nelle ultime gare. Nasce tutto dalle enormi carenze a rimbalzo, e i numeri possono aiutarci; Wright prende 3.5 rimbalzi di media in 17 minuti. Carlisle preferisce quindi destinare i suoi minuti a Murphy (4 rpg in 19', ma il Fighting Irish porta opzioni in più sul perimetro) e alla sorpresa Bernard James, il rookie più anziano della Lega se non fosse per Prigioni che è tutto tranne che un rookie: per il marine 4+4 in 12 minuti di impiego medio, ma con un dato in crescendo.

Darren non ha paura di andare al ferro.
Blake, perplesso, si interroga sulla situazione in Medio Oriente.

I dubbi principali però riguardano una posizione in particolare, quella di PG. E qua ci troviamo divisi tra aspetti positivi e negativi. Innanzitutto va detto che raccogliere l'eredità di Jason Kidd non è facile per nessuno.
Darren Collison è stato tra i protagonisti dell'ottima partenza dei Mavs: cinque gare in doppia cifra di punti, due doppie doppie, ottime percentuali anche se avvantaggiate dal fatto che la maggior parte delle sue conclusioni arriva in penetrazione o dalla media distanza. Se i Mavericks sono il quarto attacco della Lega ha indubbiamente i suoi meriti, e proprio Mayo ne beneficia (quando Collison è in panchina la percentuale dall'arco dei Mavs scende di dieci punti percentuali).
Ma nelle ultime partite ha messo in evidenza una serie di limiti difensivi che non possono non essere presi in considerazione.
Kemba Walker: 26+6+7+8 recuperi
Luke Ridnour: 15+8+7+4 recuperi
AJ Price: 11 punti
Kyrie Irving: 11 punti
Stephen Curry: 31+6+9

Queste le prove dei recenti dirimpettai di Collison (record in questo segmento 2-3). Il problema arriva anche dagli scarsi risultati dei suoi backup. Rodrigue Beaubois è ormai un punto interrogativo: costantemente infortunato, tanto che il coach ha recentemente detto di essere al momento "preoccupato essenzialmente dei suoi problemi di salute", quando schierato non offre il minimo contributo, e viene ormai utilizzato più come SG. C'è allora l'opzione Dominique Jones, che è come Collison giocatore che ama andare al ferro, ma anche in questo caso la costanza non è dalla sua. Si è parlato di un interessamento per Derek Fisher, che però sicuramente non risolverebbe quei problemi difensivi.
Al momento, i Mavs vanno là dove li porta Collison, che nelle vittorie tira con il 52% dal campo e nelle sconfitte con il 36%
Tutto questo, aspettando Dirk.