domenica 23 ottobre 2011

Virtus Bologna





.... e se invece si fosse cercato un lungo con qualche punto nelle mani?

sabato 22 ottobre 2011

Per chi non lo avesse ancora visto...

Momenti di gioia e incredulità!

venerdì 21 ottobre 2011

Olimpia-Maccabi

Se qualche anno fa mi avessero detto: "un giorno avrai l'abbonamento all'Olimpia", avrei riso. Come peraltro se mi avessero detto: "dopo la laurea, continuerai a lavorare all'università". Eppure mi ritrovo dottorando e con l'abbonamento a Milano (ma anche a Napoli). Nelle ultime settimane, la consegna di un progetto mi ha tenuto abbastanza lontano dal basket scritto (da me). Ma sfrutto l'occasione di questo viaggio in treno (lo sciopero mi fa un baffo) verso il nordest per dire due parole sulla partita di ieri. L'ultima volta che avevo visto Milano in Eurolega ebbi la fortuna di assistere ad un clinic del Tau (quello di Prigioni, Splitter e Pete Mickael) che violentava la malcapitata AJ di Piero Bucchi (uno di noi!). Beh, ieri si respirava un'altra atmosfera, col pubblico, anche un po' patinato (tra gli altri, Trinchieri, Marcelo Nicola, Allegri e tutta la troupe di sky ad assistere alla gara), che sapeva di non andare incontro ad un massacro. Bene, pronti via ed è Bourousis contro Baby Shaq. Sul 14-7 per Milano, Scariolo ha non poche colpe nel proporre un quintetto con Gallinari 5 tattico in attacco e Radosevic in ala grande. Bene, ma Schortsanitis chi lo tiene? Parziale Maccabi e lunghi milanesi con 2 falli ciascuno. Possibile che il coach bresciano non sapesse ancora dei miracoli di San Mason da Princeton? Il Maccabi è sorretto dall'asse play-pivot (centellinato, vista l'autonomia di Big Sofo), con Papaloukas che in un paio di circostanze accende il pulmino giallo e porta tutti a scuola. E Farmar? Bella chiavica, anche se gli concediamo il beneficio del dubbio per un infortunio. Poi va be', tanto Hairston, ordinaria amministrazione per Cook (che però segna dei canestri importanti nel quarto quarto), male Nicholas, che mi è sembrato pestarsi un po' i piedi con l'ex Siena. Il che può capitare quando provi ad eseguire in fase di rodaggio. Vedere da una parte Nicholas e dall'altra Blatt mi ha fatto venire in mente quella Benetton (ZisisNicholasSiskauskasGoreeBargnaniBlatt). Capitolo Gallinari: le cifre sono quelle che sono, ma mi sembra stia diventando più un realizzatore che il giocatore all-around che sembrava poter diventare. Mason Rocca: basta! meravigliarsi ogni volta che ha la meglio su un giocatore più grosso e famoso, basta! dire che è un giocatore tutto cuore-grinta e polmoni. Non saper tirare i liberi non vuol necessariamente dire essere poco tecnico. Per quanto riguarda gli altri singoli, sono prevenuto su Fotsis, nel senso che lo trovo sempre e comunque cestisticamente arrapante, anche quando ha problemi di falli come ieri. Buono qualche spunto di Giachetti, ma forse troppo spazio nelle fasi finali. Male Melli e Radosevic, mentre per le prossime spero di vedere in campo Viggiano (che io sappia anche lui un po' acciaccato). Il Maccabi è di per certo ad un Keith Langford di distanza dal giocarsi il secondo posto con quelle che non sono il Cska: Baby Shaq a tratti mi ha ricordato il Bud Spencer di Lo chiamavano Bulldozer, ma non riesce ad essere la prima opzione offensiva troppo a lungo. Eliyahu inarrestabile in post e Blu(thenthal) che suona la carica nel tentativo di rimonta (Papaloukas ha sbagliato una tripla tutto sommato agevole per il meno 3). E poi la solita, bastarda, zona di Blatt.

giovedì 6 ottobre 2011

Virtus Bryant

Ci hanno chiesto un'opinione sul possibile arrivo di Bryant a Bologna, con formule più o meno esotiche (dieci gare, anzi una; calendario stravolto, anzi no; palazzetti grandi, anzi spese divise tra le società, anzi gli diamo Melissa Satta in premio...).
Mi spiace, ma noi preferiremmo parlare di basket.

lunedì 26 settembre 2011

Retorica spicciola & soddisfazione

Uno si sforza a non essere retorico ma non ci riesce.
Eravamo in tanti ieri. Più di quanti potessi augurarmi. E quando il capitano, Simone Gatti, ha messo la tripla del 3-0, il palazzetto è esploso, gli ultras hanno lanciato la carta in campo, ed è stato come se anni di tristezze, delusioni e illusioni fossero state spazzate via. Maione, Papalia, Cirillo. Farse e fallimenti, tutte cancellate da una palla che entrava nella retina.
Non è stata una gara semplice, ma non si poteva perdere.
E si è chiusa come si è aperta, con Simone a colpire da fuori e il PalaBarbuto ad esultare. E noi più di tutti, perché mesi di lavoro si erano concretizzati ed ora eravamo là, sopraffatti dalla fatica e dalla tensione, a vedere quella palla schiaffeggiare la retina.

(foto di Pier #31)

domenica 25 settembre 2011

Emozione e tensione

Oggi comincia una nuova avventura. C'è un pubblico da riconquistare dopo tre fallimenti e numerose farse.
C'è un palazzetto da riempire. C'è un campionato da onorare.
Un'avventura nata quasi per caso pochi mesi fa, tra lo scetticismo e le perplessità anche di chi l'aveva lanciata.
Piano piano quello che sembrava un sogno irrealizzabile è andato delineandosi. I dubbi son diventati certezze. Le speranze si sono consolidate.
In bocca al lupo ai ragazzi, in bocca al lupo ai tifosi, in bocca al lupo soprattutto a chi ci ha creduto dall'inizio. E in bocca al lupo a me.

martedì 6 settembre 2011

Cronache dagli Europei


1/9/2011

ore 14:00 – devo riordinare le idee e procedere con ordine, perché dal viaggio di ieri ad ora di cose da raccontare ce ne sono. Quindi procedo con ordine e inizio a dare le coordinate spazio-temporali del mio racconto. I protagonisti siamo io, che vi scrivo, e Simone, che talvolta sarà chiamato “La Meravigliosa” per via della sua classe cestistica cristallina ed una certa affinità con Francesca Zara.
Vi scrivo della fan-zone adiacente all’Arena di Siauliai, dove sta per iniziare la seconda giornata del girone B di Eurobasket, che vede coinvolti i nostri azzurri. La mia cronaca, però, parte da ieri (31/8), giorno in cui La Meravigliosa ed io abbiamo lasciato Riga per far volta a Siauliai, appunto (pronuncia Scioulè).
Il viaggio accade in un minibus da 16 posti. Simone ed io, seduti in ultima fila come i fighi delle gite scolastiche, abbiamo scambiato quattro chiacchiere in inglese surreale con un lituano che apprezzava troppo il Balsamo Nero, 45 gradi di amore amaro.
Le strade baltiche sono pessime e gli autisti piuttosto allegri.
Arriviamo a Siauliai alle 19:50, in orario, e raggiungiamo in taxi il fan camp, campeggio provvisorio allestito per accogliere i tifosi. La cosa è gestita da volontari (e volontarie) molto gentili. Sbrigate le formalità dell’arrivo, scopriamo che i nostri vicini di tenda sono due crucchi con cui leghiamo immediatamente, complice un beverone di vodka ed un noto energetico di cui i due mangiacrauti sono piuttosto forniti.
Si fa ora, tra un sorso e l’altro, di partita e tutti insieme allegramente si va a vedere la Lituania giocare contro la Gran Bretagna, in un centro commerciale. Ossia l’unica “attrazione” nei dintorni del campeggio, che sorge non lontanissimo dall’Arena, ma nel mezzo del nulla.
Mi sento di confermare il luogo comune per il quale guardare una partita di basket della Lituania in Lituania, sia come guardare una partita di calcio molto sentita in Italia.
Le cose degne di nota della serata sono state: la scortesia dei gestori del pub nel centro commerciale, la sensazione che le birre lituane siano migliori di quelle lettoni (a loro volta migliori delle estoni), un paio di cameriere ed il coro che alcune voci bianche presenti tra gli avventori intonano dopo la vittoria.
I tedeschi ci provano con le cameriere, due di picche neanche quotato, si torna in campeggio. Che si fa, che non si fa, c’è una festa nella discoteca del centro commerciale di cui sopra. Dopo un altro beverone, andiamo: La Meravigliosa, io ed i due adepti di Nowitzki risultiamo gli unici presenti. Chiacchieriamo con lo speaker (“che ci consigli di fare stasera?” “mmm..masturbatevi”), torniamo in campeggio, raccattiamo due volontarie dirette in centro e andiamo con loro. È l’una circa.
Siauliai è la quarta città della Lituania, ma sembra un enorme paese, con 150.000 abitanti, poiché si sviluppa quasi interamente lungo una strada principale: potete immaginare quanto sia lunga. Camminiamo chilometri, tutto chiuso. Scoraggiati torniamo in taxi.
La notte passa, tra il terreno duro e la pioggia, battente, costante di questi giorni baltici.
Il campeggio è ricavato nel cortile di una palestra, all’esterno della quale sono stati disposti dei bagni chimici. La colazione è spartana (“comunista”, per dirla alla Simone), mentre nella palestra inizia l’allenamento della prima squadra locale, che gioca la Lega Baltica e nella quale milita quell’idolo di Mindaugas Zukauskas. È stato bello vederlo.
Il resto della mattinata consiste di un giro in centro, nel quale abbiamo potuto dare a Siauliai il titolo di “Capitale Europea della Gonna Corta”, ed una visita alla suggestiva Collina delle Croci. Poi, sempre sotto la pioggia, ci muoviamo verso l’Arena; la fan zone ha una serie di playgrounds dove potremmo dimostrare tutte le nostre capacità, ma non lo facciamo, ed un maxischermo dove proiettano le migliori partite della giornata. Alle 21, secondo voi c’è la Lituania o l’Italia?


ore 17:00 – a caldo dopo Serbia – Lettonia
- tutto sommato una vittoria non proprio agevole della Serbia
- Savanovic è una bestia
- Ivkovic ha aperto troppo presto le gabbie ed il secondo quintetto serbo non è riuscito mai a reggere
- Janis Blums ha sempre le palle cubiche
- nel palazzetto c’è una bella atmosfera; i giocatori sono tutto sommato vicini; tra i tifosi, i lettoni coloratissimi la fanno da padroni, molti i tedeschi, venuti ad adorare il loro dio ed una serba maggiorata
- prima di Francia-Israele ci chiediamo: Tony Parker è veloce come sembra in tv?



ore 19:20 – garbage time di Francia-Israele
La Francia impressiona soltanto per i nomi (e per la fidanzata di Ali Traorè), ma ha chiuso i conti soltanto quando Parker, che è veramente veloce, e Batum hanno deciso di salire di livello. Anche se, a dirla tutta, il leader mi sembra Diaw, che in campo non sta mai zitto e che sta assumendo le fattezze di un Charles Barkley.
Israele è pochissima roba, ma è davvero buono il neoacquisto di Treviso Mekel: dà sempre l’impressione di essere in controllo.
Qua ha rotto il continuo ricorso agli stacchetti, dato che ad ogni fallo o sostituzione parte un jingle. A proposito di musica, noi di Poetry in Motion prendiamo le distanze dalla mentalità dilagante che vede la donna come oggetto e la vàluta soltanto in base a canoni estetici: per questo motivo, Simone ed io facciamo i complimenti alle ballerine del Lietuvos Rytas solo e soltanto per la loro bravura.
In conclusione, nell’attesa della probabile sconfitta con la Germania, chiudo con un suggerimento: mai discutere con un tedesco, su chi sia il più grande giocatore europeo di sempre. Soprattutto se il tedesco non sa chi sia stato Drazen Petrovic.














ore 22:40 – 62 punti. E noi dobbiamo due birre ai crucchi.



2/9/2011

ore 10:50 – dall’autobus per Panevezys, dopo una notte insonne
Il terreno era più duro del solito e l’umidità picchiava: in tenda un poco piacevole vento freddo soffiava sulle nostre facce assonnate (e deluse, la birra ai crucchi proprio non volevamo offrirla).
Alle 6 di questa mattina una fitta nebbia avvolgeva il nostro campeggio; ora c’è uno squarcio di sole, ma abbiamo imparato a non fidarci.

ore 14:10 – siamo nella fanzone di Panevezys, del tutto simile a quella di Siauliai. Le città invece sono piuttosto diverse: rispetto a” Panevezys, che comunque è la quinta della Lituania, Siauliai è molto più “occidentale”. Ed è quanto dire. Si sente forte l’aria di Unione Sovietica; le donne indossano foulard attorno al volto, l’inglese non esiste, alla stazione le informazioni te le scrivono su post-it anziché dirtele a voce. E non abbiamo visto gonne corte.
Il campeggio è carino, sempre nel mezzo del nulla. Gli spagnoli sembrano la maggioranza, ma abbiamo trovato vari polacchi e qualche inglese. Non pervenuti i portoghesi, eccetto uno che girava in bici per il centro città.
Nota negativa: la reception del fan camp, non proprio simpatici.
Nota positiva, molto positiva: siamo riusciti a trovare i biglietti per Lituania-Turchia.






ore 17:40 – reduce dalla partita della Spagna.
Oddio, esibizione più che partita. La cosa rimarchevole (forse l’unica assieme ad un passaggio al volo di Marc Gasol, dal post medio, per un lay up di Felipe Reyes) è stata poter guardare tutto il secondo tempo a bordo campo, sfruttando l’assoluta vuotezza dell’Arena di Panevezys.
È stato bello avere così vicine certe facce viste sempre attraverso uno schermo. A proposito, su Pau Gasol c’è fallo ad ogni azione.
Ora Simone ed io siamo nuovamente nella fan zone, sul maxischermo c’è la partita dell’Italia appena iniziata. Nuvole nere si accumulano sulla nazionale, ma soprattutto su di noi: dopo una giornata di sereno, era scontato che minacciasse pioggia appena fuori dall’Arena.



ore 20:35 – in attesa di Lituania – Turchia, due parole sull’Italia:
1) Bargnani è uno dei pochi giocatori che riesce a non convincere (convincermi?) del tutto anche quando fa 40 punti
2) Perché nel playbook dell’Italia non sono previste situazioni di ricciolo per Belinelli? È vero che non abbiamo i bloccanti adatti, ma almeno lo terremmo lontano dalla palla (anche se, a dirla tutta mi sembra che con la Lettonia si sia dato un po’ una regolata)
Comunque, ora chiudo perché stanno entrando in campo quelli bravi. L’unico “piccolo” contrattempo, abbiamo dei posti del cazzo e ci tocca sgattaiolare da qualche parte.

P.s. che poi Bargnani ha deciso sì la gara, ma con una stoppata.



3/9/2011

ore 9:50 – dall’autobus per Vilnius
Simone ed io cerchiamo di riordinare le idee dopo la partita di ieri, o meglio, un’esperienza che va anche oltre il basket. Quindi, per bilanciare un po’ i toni, inizio con una critica all’organizzazione: un’Arena come quella di Panevezys, progettata per il ciclismo su pista, non è adatta ad ospitare la pallacanestro. Detto ciò, ieri poi siamo riusciti a sgattaiolare ed abbiamo visto la gara da una posizione invidiabile.



Partita pazzesca. La Turchia si è dimostrata superiore per 3 quarti, con una rotazione di lunghi da favola ed una difesa contro la quale o non esegui (transizione) o se smetti di eseguire sei finito. I Lituani hanno sofferto a lungo, poi è cambiato qualcosa. Merito di coach Kemzura, che ha giocato le fasi finali con un quintetto superoffensivo e atletico, capace di cambiare sistematicamente in difesa, seppur perdendo in taglia ed intimidazione. Merito delle palle dei Kaukenas, Jasaitis, Songaila e compagnia, che nel finale hanno messo tutti i tiri importanti. Userò la parola “merito” anche per riferirmi alla decisiva e dubbia chiamata di doppio campo (che di fatto ha chiuso la gara) e l’infortunio di Tunceri, su cui tornerò. Perché per il momento voglio parlare del pubblico.
Quello che la gente lituana ha mostrato per quasi tutta la gara andava ben oltre il tifo: era amore. Un palazzetto verde che all’unisono urlava, applaudiva, respirava. Il tifo contro i Turchi, quando Ilyasova e Asik distruggevano la difesa lituana, sembrava la reazione di una mamma che difende i propri figli dai bulli. E i Lituani dimostrano questo amore anche mettendo mano al portafogli: il biglietto della singola partita, peraltro in un settore dal quale si vede solo metà del campo, costa quanto quello di un’intera giornata di partite, senza Lituania, ma in un buon settore. Allo stesso modo, la maglia da gioco della nazionale, con bandiera e scritte stampate, costa più del doppio (oltre 350 litas, un centinaio d’euro) della maglia della Francia, o della Germania, ma con scritte e bandiere cucite.



E mi piacerebbe poter dire che sia stato il troppo amore a causare la brutta reazione all’infortunio di Tunceri, ma sarebbe troppo facile.
I fatti: Kaukenas, raddoppiato, si gira di scatto e rifila una manata, ai miei occhi involontaria, al playmaker della nazionale turca, che stramazza al suolo. Nervosismo sulla panchina, nasce una breve discussione: Kaukenas, che immediatamente va a sincerarsi delle condizioni di Tunceri, viene avvicinato da un paio di Turchi, ma tutto si placa abbastanza velocemente. Intanto, il pubblico urla ritmicamente un verso simile a quello che gli idioti riservano ai calciatori di colore, qualcuno ride quando Tunceri sviene dopo aver provato a rialzarsi, mentre l’intera curva muove su e giù le braccia, i pollici rivolti verso il basso, in un gesto che sembrava la versione locale del “devi morire”. È stato brutto.
Comunque, è probabile che sia stato il pubblico decisivo anche nella già citata decisione sull’infrazione di campo, perché il piede sembrava quello del solito Kaukenas, Alla fine, delirio collettivo: canti, urla, abbracci, la fan zone piena di gente esultante, fuochi d’artificio e cori che si sono protratti fino alle 5 del mattino. Il tutto per una partita della fase a gironi. Non oso immaginare se dovessero vincere tutto.
Intanto, abbiamo lasciato Panevezys sotto un sole che spaccava le pietre.

p.s. la manata, anzi, cazzotto involontario in faccia l’ho preso pure io, da un tifoso locale veramente entusiasta per un canestro segnato.

domenica 4 settembre 2011

Diario degli Europei: introduzione

Vi confesso che all'appuntamento degli Europei non sono andato troppo preparato. Sia il lavoro, sia la vacanza, strano a dirsi, mi hanno entrambi tenuto lontano dalla pallacanestro estiva. Non ho visto nessuna amichevole dell'Italia, a stento conoscevo i nomi delle ultime qualificate. Ma la concomitanza con alcune situazioni personali favorevoli aveva reso il tutto molto appetibile e non appena ho avuto la disponibilità, assieme con un amico ho comprato alloggi e biglietti, inserendo gli europei in un tour delle capitali baltiche.
Quello che pubblicherò nei prossimi giorni è il resoconto di due giorni di intensa pallacanestro, il primo settembre quando l'Italia ha affrontato la Germania di Nowitzki, il due settembre (altra città altro girone), dove il mio compagno di viaggio ed io abbiamo avuto l'opportunità di guardare la Spagna ed assistere a Lituania-Turchia.
Il mio intento era quello di descrivere non tanto quanto avveniva in campo, quanto l'atmosfera intorno a questa manifestazione. Però, si sa, tra il dire e il fare c'è di mezzo e il.
Tra oggi e domani finisco la trascrizione e l'edit di quanto scritto, poiché i miei potentissimi mezzi tecnologici mi hanno consentito soltanto un bloc notes ed una penna (verde). Per cui già domani potrebbe essere online la prima parte.
Intanto, dopo l'eliminazione dell'Italia della quale non voglio parlare, sebbene non ci sia nulla da celebrare metto quassù il tormentone dei miei giorni lituani..

lunedì 1 agosto 2011

Che fine avete fatto?


Che fine abbiamo fatto? Eh già, sono state settimane un po' pienotte e non è che il lockout ispiri più di tanto. Dis/Impegno è diventato ormai una sorta di Archimede Pitagorico, mentre il sottoscritto sta cercando finalmente di tirare un po' il fiato, anche se fine a sabato sarà ancora battaglia.
Torneremo verso fine agosto. Vi anticipo che possiamo permetterci anche il lusso di avere un inviato sul campo in quel di Lituania per gli Europei. Non so quanto potrà scrivere in presa diretta, altrimenti ci accontenteremo di qualche resoconto post-manifestazione e dovremo limitarci ad analizzare quello che sor Franco Lauro ci farà vedere. Ci aspettiamo soprattutto gnocca lituana.
E poi un po' di novità a settembre, perché c'è una squadra napoletana di basket da seguire, sperando sia la volta buona per un po' di stabilità. Il difficile sarà affrontare il tema con stabilità perché - e qui vi do una notizia - c'è ol rischio di un conflitto di interessi...

giovedì 7 luglio 2011

When The Levee Breaks


Scriviamo mentre gli argini stanno per cedere. E la falla, bella grossa, la sta provocando quello che in contumacia CP3 è la migliore point guard della lega. Ossia Deron Williams, per il quale si starebbero per aprire le porte della Turchia e del Besiktas. Non c'è bisogno di evidenziare la portata di questa decisione in una situazione di lockout. Qua non parliamo del Weems di turno. Qua parliamo di un Top 10 NBA che decide di forzare la mano e a pochi giorni dalla decisione del lockout se ne va nella periferia dell'impero. In una squadra che il prossimo anno non giocherebbe neanche l'Eurolega.
Sono i soldi la causa, quindi? A giudicare dalle prime voci, confuse come tutti i rumours che si stanno rincorrendo in questi giorni, la cifra spettante a Deron non sarebbe neanche così alta, soprattutto per un giocatore che nella prossima stagione dovrebbe guadagnare 18 milioni di dollari l'anno.

"Ehi Fish, tu sei il boss dell'Associazione giocatori. E se Stern si arrabbiasse con me?"
Ecco, l'altro aspetto spinoso è questo: Williams è sotto contratto, e avrebbe bisogno dell'autorizzazione della FIBA per poter giocare altrove. La questione non sembra così semplice, come spiegato da ESPN.
But the NBA Players Association has privately maintained for months that it intends to legally challenge any attempt by the NBA or FIBA to block a player such as Williams from playing elsewhere while the NBA has imposed a work stoppage.
"If they try to stop him," one source said of Williams, "the union will fight it."
Al di là di tutto, c'è un altro aspetto da considerare. Quanto conviene a una squadra europea ingaggiare un giocatore NBA? E' vero, c'è un aspetto di marketing da non sottovalutare. E di risultati, ovviamente. Ecco, i risultati. Mettiamo che il Besiktas prende il buon Deron e che questi gioca come sa. Tutto bene, tutto bellissimo, Besiktas che a gennaio è primo in classifica.
E se si riprende a giocare in America? Williams torna ai Nets (la clausola del contratto lo permetterebbe) e i turchi restano con cosa in mano nel momento decisivo della stagione?

Un altro piccolo appunto arriva dal preziosissimo ShamSports: nessun dubbio che Williams vedrà tutti i suoi soldi. Ma il Besiktas ha alle sue spalle una discreta storia di pendenze, che conta, tra gli altri, Kevin Fletcher, Sandro Nicevic, Marque Perry , Brad Newley e la simpatica Milica Dabovic.

Quante battute sessiste si potrebbero fare con termini cestistici?

Una Lega da cancellare

L'impressione - abbastanza netta - è che il sistema LegaDue, così come organizzato, non possa reggere. La prima edizione del neonato Campionato di Sviluppo ci aiuterà a capire se si potrà intervenire accorpando le due leghe, ma probabilmente la prima cosa da fare è tornare ad un dilettantismo che a questi livelli può significare meno tasse e probabilmente minori possibilità di fallimenti a catena.
In neanche quindici giorni abbiamo perso due piazze storiche come Rimini e Udine. A queste si è aggiunta in prima battuta Casalpusterlengo e ora anche Trapani. Una serie di disastri che porteranno a disputare la prossima LegaDue squadre oneste, nel senso che hanno avuto la capacità o la fortuna di reggere da un punto di vista economico, senza neanche ottenere chissà quali grandi risultati sul campo. Da questo punto di vista, il nostro tifo va a loro.
Ed è probabile che anche la futura lotta-salvezza sarà decisa dai mal di schiena e dalla regolarità nei pagamenti.
Insomma, un disastro su tutti i fronti per un campionato che comunque offrirebbe spunti interessanti (basti vedere la serie finale di quest'anno o i vari USA che fanno brevi apparizioni per poi sbarcare in realtà più importanti).
A queste vicende si aggiungerebbe la questione wild-card, che potrebbe riportare la massima serie a 18 squadre. Servirebbero decisioni coraggiose, dubitiamo saranno mai prese.

martedì 14 giugno 2011

Qui Miami

La serie finale ha messo di fronte le due squadre che sono emerse dalla "mediocrità" di questi playoff: i Lakers hanno sofferto contro gli Hornets privi di West, i Magic sono caduti immediatamente, i malandati Spurs hanno subito un upset clamoroso e i C's erano tutt'altro che una minaccia credibile. Non che siano mancati spettacolo, intensità, pathos, ma è stato troppo presto evidente che avremmo assistito a LA rivincita.





"Più sono grandi, più fanno rumore quando cadono"

Gli Heat hanno fatto rumore, ma non quello di un gigante sconfitto, di Golia sconfitto da Davide: era il rumore di un gigantesco amplificatore che anche dopo la sconfitta ha suonato la musica del circo.
Miami ha avuto una stagione sincopata, con alti e bassi che sotto la lente di ingrandimento puntata fissa sono sembrati ancora più alti e più bassi. Ma alla fine ha mostrato solidità, seppur contro squadre alla frutta: i Celtics con Rondo a mezzo servizio e senza Shaq, i Bulls logori ed inesperti. Erano quindi davvero così favoriti gli Heat, rispetto alla squadra che ha demolito i Lakers? O hanno solo autoalimentato la loro superiorità?
Oggi è facile dire di sì. La realtà però è che si sono palesati limiti, tecnici tattici e mentali, troppo palesi per essere credibili. Anche da chi lo vorrebbe tanto come me.


"L'è tutto sbagliato l'è tutto da rifare"

No, in realtà no. La difesa è collaudata, l'età è ancora verde ed il talento è sotto gli occhi di tutti. Spoelstra ha fatto bene (quasi) fino alla fine, evitando che la situazione scappasse di mano nei momenti di difficoltà della stagione regolare; col senno di poi, la confessione delle lacrime in spogliatoio suonano come uno dei "mind trick" di scuola jacksoniana. Ha saputo incanalare certe personalità su binari giusti. E' venuto meno quando gli si è chiesto di uscire da quei binari ed a questo è legato il più grande dubbio su di lui: è mancato di materiale umano, o siamo in presenza di un allenatore "solamente" preparato, ma senza quel qualcosa in più necessario a far salire di livello la squadra?




"Se qualcosa può andar male, lo farà"

Così è stato. Tutti i nodi sono venuti al pettine. La mancanza di giochi di continuità, di qualcuno a cui affidare la palla non nelle missioni speciali, ma per l'ordinaria amministrazione e infine quella di un post basso affidabile dove rifugiarsi. Questa serie è stata la dimostrazione che, nella pallacanestro, 2+2 può fare 5, ma anche 3: la squadra delle armi atomiche ha perso perché non in grado di fare abbastanza danni. Chi di contropiede ferisce, può rimanere inceppato se l'arma principale gli viene negata e addirittura rivolta contro. A questo proposito sono sacrosante le parole di Tavcar, dimostrate in pieno dai Mavs: la difesa ti fa vincere se hai l'attacco.
Visti i personaggi in questione, l'assunto risulterebbe alquanto umiliante per qualsiasi essere umano che non abbia l'autostima di un giocatore NBA. Anzi, più pompata di quasi la totalità dei giocatori NBA. Ma sebbene certi problemi fossero piuttosto prevedibili già l'anno scorso, è probabile che ora possa esserci maggiore comunione di intenti nella costruzione un attacco corale. La sfortuna degli Heat è che certi ego sono difficili da scalfire. La loro fortuna è Pat Riley: ammesso che non avesse già previsto tutto, saprà prendere le contromisure adeguate, ma soprattutto ha il carisma per farle accettare anche a coloro ai quali dovessero risultare indigeste.


"Se tu mi stai vicino, mi appoggio un poco a te. Con umiltè"

Tirando le somme, nella prossima stagione gli occhi dell'est saranno (di nuovo) tutti puntati su Miami. La domanda è, ci sarà la prossima stagione? E quali saranno le regole? Sarà ancora possibile che le superstar si accordino di giocare insieme come i ragazzini al campetto, oppure le squadre potranno "proteggersi" da eventuali nuove "decisions", come avviene in altri sport? Questo non è dato saperlo. L'unica cosa da fare, nel frattempo è prendere esempio dal loro carnefice, sottovalutato da tutti, capace di diventare migliore di anno in anno. Lontano dai riflettori, guardarsi allo specchio e capire perché si è ancora al palo. Una cosa ormai è acclarata: qualora dovesse venire introdotta la regola, gli Heat saprebbero già chi vincolare come giocatore franchigia…

Beatiful losers? Non più

Incredulità. Gioia. E il desiderio di rivivere questi giorni, la sensazione che - anche se dovesse ripetersi in futuro - non sarà mai la stessa cosa. Perché il primo titolo è qualcosa di speciale, perché aspettavo questo momento da quando ho iniziato a seguire la NBA. Perché sono passati cinque anni da quel maledetto, ma oggi benedetto, 2006. Perché sono passati quattro anni da quel 2007, poco citato in questi giorni, ma probabilmente ancora più determinante nell'indirizzare il destino verso quanto successo la scorsa notte a Miami.

Le tipiche facce di chi ha appena capito di essere diventato campione Nba

Degli sconfitti oggi parlano tutti, ne parleremo anche noi, ma scusate se mi concentro un po' sui miei Mavs. Perché può sembrare quasi che con i Lakers abbiamo vinto perché a L.A. erano stanchi e appagati, con i Thunder perché Westbrook è una capra, con gli Heat perché hanno smesso loro di giocare - puntualmente - ad ogni quarto quarto.
Invece mai come questa volta si tratta di una vittoria di squadra. Ho letto che ha vinto la pallacanestro. Può essere, io non arriverei ad essere così drastico. Perché la pallacanestro difensiva giocata da Miami è stata a lungo una grande pallacanestro. Ma quella dei Mavs è stata globalmente stata superiore.

                                                                           The Coach
Sicurezza! Jim Carrey ha rubato il trofeo!
E qui veniamo a Rick Carlisle, il Jim Carrey dei coach, uno dei tanti che si è preso una bella rivincita. Tanto che sul palco tratteneva a fatica le lacrime. Insieme al suo staff ha orchestrato un piccolo capolavoro. Innanzitutto sotto l'aspetto mentale, riuscendo a trasformare una squadra di fantomatici perdentoni in una macchina di vincenti da quarto quarto. Non può essere un caso se i Mavs in queste settimane, dopo aver subito la resurrezione di Brandon Roy, abbiano messo in fila una serie di rimonte, alcune delle quali entrate - per la loro proporzione - nella storia dei playoffs e delle Finals. Lakers, Thunder, Heat: ognuna di queste squadre ha dovuto almeno una grande rimonta.
C'è poi l'aspetto tecnico.
Difensivamente, pur disponendo di buoni ed anche buonissimi difensori (Chandler, Marion, Stevenson) è stato necessario creare un sistema che mascherasse le lacune dei vari Nowitzki, Terry e Barea. La difesa a zona, di quelle che raramente si vedono tra i pro americani (chiedere a Rasheed), è stata fondamentale, soprattutto quando è stato necessario preservare i lunghi dai falli in gara-6. I Mavericks non hanno le qualità tecniche e atletiche per difendere come Miami o Chicago, non hanno il sistema di Thibodeau che tanto bene ha fatto a Celtics o Bulls. Hanno però nel loro carniere 15/20 minuti di ottima difesa a partita. Sono stati eccezionali nel riuscire ad usarli nei momenti giusti. Per chi segue i Mavs, la difesa di Dallas di questi playoff non è certo una sorpresa. Ne parlammo parecchi mesi fa... Quello che però era difficile aspettarsi, era riuscire a vedere un Jason Kidd di nuovo così determinante difensivamente. Due anni fa Chris Paul - certo, non il primo venuto - lo massacrò, fece di lui quel che voleva. Due anni dopo, con 38 primavere sulle spalle, il più grande giocatore della storia dei Nets è passato in poche settimane dal marcare (e contenere in maniera adeguata) Bryant e Westbrook a Wade e LeBron. Ha contenuto in post Kobe, ha mandato fuori giri lo scudiero di Durant, ha negato ogni ricezione in gara-4 a colui che nel 2006 aveva massacrato i Mavericks, escludendolo di fatto dai minuti finali.
Ma, ovviamente, i Mavs hanno vinto la serie offensivamente. Un attacco basato sulla ricerca ossessiva del migliore tiro disponibile e dell'extrapass. "Dallas sta vincendo perché sta prendendo i tiri che deve prendersi, Miami no", ha detto Buffa in cronaca. Certo, avere due play occulti in campo, tra cui uno che dall'alto dei 2.13 ha una visuale ottimale per scegliere dove scaricare, aiuta. Ma raramente ho visto i miei Mavericks giocare così bene in attacco, senza forzare, facendo quasi sempre la scelta migliore.
Un sistema che ha permesso ai Mavs di andare a vincere un titolo nonostante gran parte della stagione sia trascorsa senza Caron Butler, secondo violino ideale per levare un po' di pressione al tedesco. Senza Beaubois, ancora acerbo ma uno dei pochi in grado di crearsi un tiro da solo. Senza Haywood nelle ultime tre partite, lasciando il peso delle rotazioni a onesti mestieranti come Cardinal e Mahinmi. Senza Stojakovic in final... ah no, Peja c'era.
E la grandezza del sistema forse sta proprio in questo, nel perdere pezzi e avere una risposta pronta da chi in teoria non avrebbe neanche il diritto di cittadinanza in una Finale Nba.


"Bill, ti rendi conto che ho dovuto giocare per anni con Dampier?"
The MVP
Tutto questo non sarebbe stato possibile senza l'Ubermensch, Dirk Nowitzki. Ora, permetterete un minimo di commozione, perché è vero che chi scrive ha iniziato ad appassionarsi all'NBA con Magic, Jordan e Barkley. Ma è anche vero che la prima vera passione per un giocatore "contemporaneo" è arrivata con questo pennellone, quando era magro da fare impressione e giocava ala piccola. Capirete che il sottoscritto ha distrutto i coglioni ad una comitiva di sette persone, durante un interrail tedesco del 2002, costringendo gli sventurati eroi ad andare in giro - anziché a vedere castelli, cercare figa, bere birra - per negozi sportivi, alla disperata ricerca di una canotta dei Mavs trovata solamente nella penultima tappa, in uno sperduto negozietto di Heidelberg.
Capirete quindi che vederlo scappare negli spogliatoi due secondi prima della fine di gara-6 rappresenti per chi scrive un momento di una commozione straordinaria. Cercando di abbandonare i sentimentalismi, la grandezza di Nowitzki è stata quella di saper crescere anno dopo anno, aggiungendo nuovi elementi al suo gioco e diventando il tiratore più immarcabile della storia del basket. Credete sia un'esagerazione? Non so, al di là del seguente video.


Fatto sta che la crescita di Dirk è stata soprattutto nelle letture di gioco. Ha saputo rispondere alle difese, ha saputo imparare dagli errori che gli sono costati un anello. Ha incassato le critiche, si è preso le responsabilità delle sconfitte, ci ha sempre messo la faccia. Ha rinnovato con la squadra che lo ha lanciato, la sua squadra. Si è messo in palestra, ha continuato ossessivamente nella sua ricerca della perfezione. Fino a qualche anno fa lo si poteva cercare di contenere con un marcatore più piccolo. Adesso non più. 
Più di dieci punti di media nei soli quarti quarti, solo Shaq e Jordan (due volte) hanno fatto meglio di lui. Clutch è sempre stato clutch, molti lo scoprono solo ora. L'impressione - ma sarò di parte - è che questi molti lo hanno sottovalutato. Dopo la finale, Spoelstra ha parlato di lui come "uno dei più forti giocatori di ogni epoca". Da studio, Buffa ha replicato "facile dirlo ora". E' il problema della mentalità della vittoria obbligata, per la quale la tua grandezza si vede dal numero di anelli. Non è un discorso che mi fa impazzire.

Losers?
Non mi fa impazzire perché è lo stesso discorso che ha portato a definire un altro giocatore, Jason Terry, un perdente per tutti questi anni, da quando fece ballare il ferro nelle Finals 2006. E trovo ridicolo pensare che fosse un perdente fino a gara-3, dopo una serie iniziata malissimo, e poi si sia miracolosamente trasformato in vincente dopo aver anche annunciato a LeBron che non sarebbe riuscito più a contenerlo. Detto fatto, una gara-6 fenomenale, e un tatuaggio fatto a inizio stagione che non andrà rimosso.

Campioni Nba, grandi prestazioni nel contract year
e una fidanzata modella: voi non ridereste?
C'è poi l'MVP morale di questi playoff. Quello che gli stessi tifosi Mavs (me compreso) non apprezzavano in fondo. Alto 175cm, portoricano, con un'elevazione "orizzontale", impegnato con un gran bel donnino (Zuleyka Rivera, googlate), Jose Juan Barea ha fatto a fette le difese Nba con la sua velocità, le sue penetrazioni, la sua faccia tosta. Per 15 minuti a partita i campioni Nba sono la sua squadra: fa e disfa, batte Fisher sul primo passo, evita la stoppata di Ibaka, appoggia a tabellone infilando Bosh. Dopo la serie con i Lakers - terminata con il tentato omicidio da parte di Bynum - ho pensato che avesse fatto quello che doveva fare, colpire nel punto debole della difesa gialloviola, incapace di contenere PG scattanti. "Con i Thunder la pacchia è finita". Niente di più sbagliato, e ancora via a a infilarsi in una difesa diventata improvvisamente di burro.
"Ok, ora arrivano gli Heat, tutt'altra difesa, tornerà il solito JJ". Per qualche gara è stato effettivamente così. Poi Carlisle lo ha messo in quintetto, estromettendo di fatto Bibby dalla serie e permettendogli di giostrare a piacimento.

Barea è un istintivo. Kidd è un istintivo riflessivo. E' uno che vive di istinti, ma ha una concezione del gioco così alta che sa cosa il suo istinto lo porterà a fare. E sarà la cosa giusta per la squadra. "Siamo una squadra di veterani guidata da un fossile", ha detto Nowitzki. Il fossile ha fatto vedere che le gambe magari reggono meno, ma la testa ti può far vincere le partite. In questi playoff lo hanno continuato a battezzare da 3, dimenticandosi che non è più il Kidd dal 30% scarso dall'arco. Certo, quest'anno c'è stato un calo (dal 42 al 34%), ma stiamo parlando del terzo giocatore per triple segnate nella storia dell'Nba. Se poi volete vedere qualcuno dominare una partita senza segnare neanche un canestro, recuperate gara-4.

Brick by brick
"Everything in its right place", cantavano i Radiohead. Così è stato per Dallas: ogni cosa al suo posto. E così anche "The Custodian", Brian Cardinal, ha vissuto momenti di grande impatto nelle Finals. Un paio di triple, qualche sfondamento subito, falli duri (MOLTO DURI). Ma forse il momento più bello è stato quando l'intera difesa di Miami ha deciso di collassare su una sua PENETRAZIONE lasciando libero sull'arco NOWITZKI. Sono quegli errori degli avversari che ti fanno capire che ormai la serie pende dalla tua parte.
Brick by brick, quindi. E di mattoni ne ha messi tantissimi Tyson Chandler, finalmente il complemento ideale per Dirk. Qualche giorno fa su Facebook mi chiedevo che cosa stesse pensando in questi momenti Sam Presti, stimatissimo GM dei Thunder che aveva portato in Oklahoma Tyson per poi vedere la trade annullata a causa delle visite mediche. Come nella più evidente delle Sliding Doors, si è visto eliminato dalla squadra di Chandler. E se il lungo ex Bulls avesse vestito la maglia dei Thunder, Perkins sarebbe ancora ai Celtics. E se i Celtics avessero avuto ancora Perkins, avrebbero perso così nettamente con Miami?
Chandler ha avuto un ruolo primario tanto in campo quanto fuori, diventando in pochissimo tempo uno dei leader dello spogliatoio. Nel rettangolo di gioco, ha fatto quello che sapeva fare meglio: difesa, intimidazione, stoppate, qualche sortita offensiva sui lob gentilmente concessi dal professor fossile. E rimbalzi, tanti rimbalzi, soprattutto in attacco, dove ha rappresentato un rebus per i lunghi Heat, così poco verticali, tanto da essere costantemente oggetto di falli subiti. Sì, più di Dirk, di Wade, di LeBron.
I mattoni sono quelli di Shawn Marion, The Matrix, giocatore che ho avuto modo di rivalutare tantissimo in questi playoff. E' stato capace di farmi innamorare per le sue capacità difensive, su Durant e su LeBron, sul quale ha alternato una difesa fisica fatta di mani addosso e mentale, entrandogli nel cervello. Meccanica agghiacciante, è l'uomo dei tiri impossibili, quello che prende posizione in post (prevalentemente a destra) e lascia partire uno strano semigancio, spesso cadendo all'indietro. Quasi quattordici punti di media.
I mattoni li ha messi DeShawn Stevenson, un altro desperado in cerca di vendetta dopo le storie tese tra Cleveland e Washington. Quintetto o panchina non è stato un problema: lui doveva difendere e mettere i piazzati da 3. 56% nelle Finals, missione compiuta.


Il vero vincitore
Volete sapere chi è? Mark Cuban, il proprietario ideale. Ha buttato una barca di soldi. I suoi comportamenti non sono mai piaciuti ai piani alti, e resto dell'idea che una loro componente nel dramma del 2006 ce l'abbiano. Ma le sconfitte lo hanno aiutato a crescere. Ha iniziato a spendere con criterio. Ha contenuto le sue dichiarazioni, le sue sortite, le sue provocazioni. Ha fatto parlare i giocatori. Certo, non gli si poteva chiedere di abbandonare la t-shirt o la panchina, non sarebbe Cuban. Ma ha avuto ragione. E nel momento della vittoria, quando poteva prendersi il piccolo sfizio di prendere il trofeo dalle mani di Stern, lo ha fatto ritirare ad un vecchio con il cappello da cowboy (cit.), il fondatore Don Carter.
Quando si dice la classe...


lunedì 13 giugno 2011

Ancora non ci credo

Della serie poi ne parliamo quando avrò una maggiore lucidità.
Intanto voglio che voi sappiate come mi sento. E per saperlo uso parole non mie, ma di un mio amico, Marcellino, il più grande tifoso dei Mavericks d'Italia. L'uomo delle nottate insonni. Ha scritto queste parole con il cuore e bene o male rappresentano anche il mio stato d'animo.
Per i commenti c'è tempo.

Per raccontare cosa sto provando in questo momento non posso non partire dalle lacrime di quel 20 giugno 2006,ormai alba del 21 giugno in Italia.Quel pallone di Terry che termina sul ferro,Wade che lancia il pallone in aria.Un'azione che non ho mai più rivisto,ma che ho avuto sempre davanti agli occhi per 5 anni.Un'azione che ho rischiato varie volte di rivedere,magari per sbaglio cazzeggiando su youtube,e che ho sempre cercato di evitare come se fosse una coltellata nel cuore.Ma la ferita c'era e faceva male,anche al solo pensiero.Quante volte ho pensato a cosa sarebbe successo se fosse entrato quel tiro,quante ho pensato cosa sarebbe successo se in gara 5 un Josh Howard da 9 su 9 dalla lunetta non avesse fatto 0 su 2 nel finale,quante volte ho pensato se in gara 3 Shaq non avesse fatto 2 su 2 ai liberi a un minuto e mezzo dalla fine.Quante volte ho pensato a come il destino sia stato incredibilmente beffardo con noi nel 2006.Insomma,quante volte ho pensato chissà cosa si prova a vincere un titolo NBA.A volte pensavo,vabbè tanto prima o poi prima di morire lo vincerò,magari tra 30 anni ma lo vincerò.Ma non è la stessa cosa.Perchè vincere il titolo con Dirk Nowitzki e Jason Terry non è lo stesso che vincere un titolo tra 30 anni.Perchè loro hanno riempito le mie notti,i miei sogni,per tanto,troppo tempo per non amarli,e vincere con loro è qualcosa di speciale.
Quante volte ho pensato a questo momento,quante.Quello che ho provato sportivamente in questi 5 anni non si può descrivere con le parole,e nemmeno la mia felicità di adesso.Una cosa però posso dirla:ogni volta che pensavo a come poteva essere questo momento,me lo immaginavo pieno di rabbia e di astio.Rabbia e astio verso Miami e Wade,verso Baron Davis ed i Warriors,verso Chris Paul e gli Hornets,verso Anthony ed i Nuggets,verso Ginobili e gli Spurs.Ossia coloro che hanno aperto la ferita,e vi hanno successivamente infierito in questi anni.Invece no,non riesco a provare sensazioni negative in questo momento,nemmeno verso chi abbiamo battuto in finale(e questo davvero mai l'avrei immaginato) provo solo un'immensa gioia.
Ma al di là della gioia,ho anche imparato una lezione importante di vita.Bisogna sempre crederci,non bisogna mai mollare,perchè nello sport come nella vita non esistono le sfide impossibili.
E ho imparato anche un'altra cosa,fin quando sei ossessionato da una cosa difficilmente la raggiungerai,però bisogna sognare,perchè a volte i sogni diventano realtà.Sono stato ossessionato dal vincere il titolo per 4 anni,quest'anno per la prima volta ho guardato questi playoffs come un sogno da rincorrere,e non come un incubo(sportivo) da evitare,ed è finita così.
Mi fermo qui perchè per ora non mi viene in mente nient'altro da dire,voglio solo ringraziare tutti quelli che ci hanno supportato in finale e per tutti i play off,mi scuso se ho infastidito qualcuno con la mia eccessiva scaramanzia.
Buonanotte.

mercoledì 1 giugno 2011

La fine di un'epoca


Qualcuno può pensare a una gufata, ma trovo particolarmente significativo il ritiro di Shaq (comunicato in un video di pochi secondi) a pochi giorni dal primo titolo dei tres amigos. Questa stagione ha segnato probabilmente la fine di un'epoca, quella dei Bryant, Duncan, Garnett, Nowitzki & Kidd. Nuove rampanti leve sono pronte a prendere il loro posto e, con l'eccezione dei Mavs, lo hanno già fatto sbarcando nelle finali di conference.
Di tutti questi fenomeni, dire che Shaq sia il numero uno, in campo e fuori, è riduttivo. MDE. Period.


Nei prossimi giorni fiumi di inchiostro saranno usati per raccontare una carriera fatta di vittorie e stravaganze, con il sorriso sulle labbra. I Magic, la finale contro Hakeem, Shazam, il three-peat e il dominio in campo, le liti con Kobe, i commenti sugli avversari (Sacramento Queens, il cinese a Yao, Ericka Dampier, Bosh/Ru Paul) e su se stesso, il pugno a Brad Miller, lo sbarco a Miami con il fucile ad acqua, il clamoroso balletto all'All Star Game il declino a Cleveland e Boston.
Ho una preghiera: mettetelo in una trasmissione insieme a Charles Barkley.

sabato 28 maggio 2011

And the winner is...

Non di certo una finale prevista in sede di bracketing, ma una bella serie. Una serie piena di significati, da qualsiasi parte la si veda. Squadra contro somma di individui. Attacco contro difesa. Ma anche la rivincita di una delle serie più discusse degli ultimi 10 anni. E da questo punto di vista, gli occhi saranno puntati tutti sugli arbitri, perché di catalizzatori di falli (e non mi riferisco ad eventuali star del porno) stavolta ce n'è più d'uno.

C'è però un aspetto che accomuna le due squadre arrivate sin qua: le motivazioni extra dei loro leader, fuoriclasse assoluti, dominatori assoluti dell'ultimo decennio che, paradossalmente, hanno ancora tutto da dimostrare. Le etichette su di loro si sono sprecate. Soft, perdente, uomo che fugge davanti alle difficoltà (sinteticamente quitter), traditore, senzapalle. Gli Spurs, gli Heat, i Warriors ed una certa mentalità che snobba chi non si atteggia a Maschio Alfa da una parte; i Celtics, i Magic e la comunità cestistica mondiale dall'altra, riunitasi attorno ai cittadini di Cleveland, dall'altra. I fantasmi di Tim Duncan e Larry Bird, quelli di Micheal Jordan e Kobe Bryant. Modelli, chimere, asintoti: un obiettivo non raggiunto diventa un fardello da portarsi dietro mentre si punta al successivo.
I nostri protagonisti, di sassi nelle scarpe, di foto appese allo specchio ne hanno a bizzeffe. Chi vincerà? Quello per cui i sassi nelle scarpe potranno essere solo una motivazione e non un peso. Quello che, nonostante le foto appese allo specchio, avrà ancora modo di guardarsi negli occhi.

venerdì 27 maggio 2011

I compiti per le vacanze

Chicago e Oklahoma City sono due squadre giovani e rampanti. Le loro repentine eliminazioni in Finale di Conference, entrambe per 4-1, non devono però nascondere l'ottima stagione disputata. Il rischio, insomma, è quello di buttare il bambino con l'acqua sporca, invece di procedere nella graduale crescita delle società e delle squadre, passando in primis per i loro leader.
Come evidenziato più volte da We Got Game, è impensabile aspirare al titolo senza essere prima passati per cocenti delusioni. Aiutano a crescere, ad aumentare la voglia di vincere. In questo senso, le reazioni di Rose ("I was just making dumb decisions, and it cost us the game") e soprattutto di Durant, molto poco contento del fatto che fosse Nowitzki a giocare per l'anello, fanno ben sperare. I due hanno talento, hanno voglia di vincere, e possiamo scommettere che tra un paio di giorni saranno già in palestra.
Dalla loro crescita passa infatti il futuro di due franchigie che potrebbero trovarsi a dominare, Heat permettendo, la NBA del prossimo decennio.
Trì is megl che uàn
Rose ha giocato dei playoff sotto il par di una meravigliosa regular season coronata dall'MVP: aumentato il numero delle conclusioni, sono drasticamente crollate le percentuali, soffocate dalla difesa di Miami che lo ha spinto ad incrementare la quantità di tiri dall'arco: 35% dal campo e 23% dall'arco nella serie, oltre ad alcune scelte errate nei finali che hanno pesato in maniera considerevole sul risultato finale.

Particolare il discorso di Durant, che ha avuto numeri di tutto rispetto (quasi 10 rimbalzi di media, tra l'altro), ma, oltre a mostrare un crollo nelle soluzioni da 3 (23% contro il 35% della RS) ha avuto un impatto molto meno evidente di quanto dimostrato dalle cifre. Dell'apporto della squadra ne parliamo dopo, ma l'impressione è che in parte sia stato, nei momenti decisivi, estromesso dal gioco; dall'altra parte, però, si è di fatto estromesso in prima persona, svanendo quando contava e soffrendo la marcatura di un giocatore come Marion, autore di una grandiosa serie e in grado tanto di contenerlo in velocità quanto di riempirlo di botte all'occorrenza.

Limiti di leader, quindi, ma anche limiti delle squadre.
Troppo facile dire che il problema dei Bulls è stato in attacco. Come ho letto da qualche parte su Twitter, metti un Harden nel motore di Chicago e stavamo parlando almeno di una gara-6. La mancanza di pericolosità dal perimetro e di lucidità nelle letture ha portato ad un'area intasata che ha fatto soffrire più di quanto già non dovessero farlo Noah e Boozer. Quest'ultimo ha confermato le perplessità sul suo conto quando si tratta di fare sul serio. Bosh, che notoriamente non è considerato un cuor di leone (ma con quei due là affianco la situazione cambia...), lo ha fatto a pezzi. Probabilmente è giunto il momento per i Bulls di andare un po' sopra il cap... se davvero si vuole insistere con Bogans (ma perché?) serve un cambio per Rose che sia in grado di giocare con lui. E sottocanestro? Questo è un problema. Boozer non lo smuovi, Noah nonostante i suoi limiti offensivi è fondamentale, Asik sta emergendo prepontemente. Gibson è in crescita ma potrebbe essere lui l'asset per puntare a qualcosa di più adatto alle circostanze.

KD a terra, passano i Mavs
Il discorso per i Thunder non è poi così differente. Resto convinto della bontà della trade Perkins, anche se la mia idea è che il sistema di Boston lo abbia fatto sopravvalutare come difensore: al momento dello scambio sembrava stessimo parlando della reincarnazione di Bill Russell. In realtà, la bontà della trade si è verificata già nella soffertissima serie contro i Grizzlies, quando Ibaka ha potuto dimostrare tutto il suo campionario di veloci pallavolistiche agendo in aiuto. Immaginarsi il congolese e Collison a fronteggiare da soli Zach Randolph e Marc Gasol mi risulta complicato. Ma la coperta è corta, e allora Perkins ti dà qualcosa in difesa, ma ti leva tantissimo in attacco. Nella serie contro i Grizzlies Gasol lo lasciava costantemente abbandonato nella sua personale valle di lacrime per andare a raddoppiare Durant. Nella serie contro i Mavs è stato praticamente nullo, vista anche la necessità di dare minuti a Collison, decisamente più adeguato in marcatura sul tedesco e in grado di portare qualche punto con jumper e azioni sulla linea di fondo.
La contemporanea presenza di Perk e Sefolosha nello starting five ha fatto molto discutere, per quanto Ibaka abbia ormai un jumper rispettabilissimo, tanto che si era parlato della possibile promozione di Harden in quintetto. Il problema è che il Barba è determinante nel gioco delle panchine, e allora torniamo alla coperta corta di cui parlavamo prima.
A Presti toccherà trovare le contromisure. La promozione in quintetto di Harden può essere una soluzione per il prossimo anno, relegando Thabo a uomo da missioni impossibili (quindi non la marcatura su Stevenson). Ma a quel punto sarà necessario trovare qualcuno in grado di dare la scossa dalla panchina.

lunedì 23 maggio 2011

A tiepido su OKC - Dallas (prima del 2-2)

Per lunghi tratti di gara 3, così come in gara 1, Nowitzki e Durant sembravano legati da uno strano incantesimo: segnava uno, segnava l'altro, sbagliava uno, sbagliava l'altro. E non so quanto possano ulteriormente alzare il loro livello di gioco, almeno rispetto alle meravigliose prestazioni individuali della prima gara. E allora che succede?
Due squadre con opposte filosofie di gioco in una serie equilibrata. Per me Nowitzki e Durant faranno il volume, ma la differenza tra le due squadre è quella del supporting cast: Westbrook ago della bilancia, ma forse non ancora pronto.

lunedì 16 maggio 2011

Elvis is (not) dead



Il fatto che a pochi minuti dall'eliminazione dei Memphis Grizzlies si stia già pensando a cosa rimarrà di questa stagione può essere considerato come un fatto positivo. C'è infatti da comprendere se quella appena conclusa è "una di quelle stagioni" o se può rappresentare il punto di partenza per qualcosa di importante. La tenera età di questi Grizzlies farebbe pendere la bilancia verso la seconda ipotesi. Oltre alla chioccia Battier, imprescindibile ed in scadenza di contratto, Memphis si ritrova con una squadra giovane e talentuosa, che gioca un bel basket, difendendo in maniera ruvida e usando in attacco raramente il tiro da fuori.
Una stagione sviluppatasi in maniera particolare: i Grizzlies attuali sono frutto di una particolare combinazione di eventi, che li ha portati a cedere il loro giocatore-franchigia per un pacchetto di fuffa nel quale si sono ritrovati un panchinaro del Barcellona diventato uno dei migliori centri della lega. C'è la trasformazione di Randolph da caso umano a lungo dominante. C'è la cessione di Mayo, saltata all'ultimo secondo, che li avrebbe privati di un giocatore diventato insostituibile sia per il suo apporto per entrambi i lati del campo che per la sua capacità di cambiare le partite. C'è l'infortunio di Gay. C'è in tutto questo anche la scelta clamorosamente fallata di Thabeet.
Rinnovato Randolph, in attesa del ritorno di Gay, appare evidente che la questione più scottante per Chris Wallace sarà il rinnovo di Gasol e in seconda battuta dell'idolo delle folle Battier (come definire uno che cita su tweeter Il Grande Lebowski ed Animal House?). Per il resto, al di là dei big, c'è tutta una serie di ragazzoni da far crescere...

martedì 10 maggio 2011

The day after the day after


Neanche tre settimane fa, in seguito all'eroica rimonta firmata da Brandon Roy, scrivevo queste parole.
Oggi, a sei gare (e sei vittorie di distanza), le cose sembrano un po' diverse.
Nonostante i Lakers sembrassero in crisi, non sono mai stato sicuro della possibilità di passare il turno. Qualcuno mi ha detto che lo facevo per scaramanzia, ma non era così. La scaramanzia mi ha portato a non vedere né seguire in alcun modo la diretta di gara-4, questo sì. E se voi mi darete del folle io vi rispondo che ho sofferto come un matto, ma purtroppo ne è valsa la pena. Ossimoro? Certo.
In realtà le esperienze passate mi hanno insegnato a non dare mai vinta una serie, quando ci sono i Mavs in campo. Neanche sul 3-0? No, neanche sul 3-0, perché solo i tifosi Mavs possono ricordare il panico di una gara-7 fortunatamente vinta dopo essersi fatti rimontare dai Jail Blazers tre vittorie di vantaggio.

E' ovvio che ora si parli tanto dei Lakers. Il loro crollo è stato fragoroso, uno sweep da bi-campioni in carica, con un blowout da record, nell'ultima partita della gloriosa carriera di Coach Zen. Davanti al quale mi levo il cappello, nella speranza che trovi un po' di tempo per qualche nuova produzione letteraria.
Merito dei Mavericks o colpa dei Lakers? Entrambe le cose.
Difficile sottrarre qualcuno dal banco degli imputati in casa gialloviola. Se in fase di presentazione della stagione mi ero permesso di parlare di mercato perfetto, prendendo un colossale granchio, la panchina Lakers ha invece mostrato tutte le sue lacune, venendo massacrata da quella di Dallas nonostante la generosità di Odom. Se Bynum ha giocato una buona serie, durante la quale ha avuto momenti in cui ha dimostrato di poter essere un giocatore su cui poter contare in futuro, è anche vero che la sua chiusura di stagione è stata la peggiore che si potesse immaginare.


Artest? Non ne parliamo. Gasol? Roba da psicanalisi, anche se al di là dei possibili limiti mentali (tutti da dimostrare: un anno fa chiudeva la trionfale cavalcata gialloviola con una gara-6 da tripla doppia sfiorata per un assist mancante e una gara-7 da 19+18 mentre Bryant sparacchiava) a me è sembrato proprio sulle gambe.
Mi aspettavo di più da Kobe, attendevo una sua reazione di orgoglio. Probabilmente non è più in grado di vincere una partita da solo, ma mi aspettavo perlomeno un tentativo. Un momento di dominio (e predominio) offensivo. Per suonare la carica o, almeno, per far vedere che almeno lui non ci stava, non si arrendeva. Non ho visto nulla di tutto questo. Ho visto un Kobe scarico, che continuava ad eseguire il compitino e in diversi casi lo faceva anche male: pessimo (come tutti i Lakers, ma ne parliamo dopo) in difesa, nonostante gli sia appena arrivato il riconoscimento dell'ennesimo primo quintetto difensivo (con LeBron e Rondo. sic.), ma anche dallo scarso impatto in attacco, dove ha continuato ad accontentarsi dei jumper nonostante Stevenson sembrasse tutt'altro che perfetto in copertura su di lui, e ad andare in post quando marcato da Kidd. Come se portare in post Kidd fosse una buona idea.

Se mi aspettavo di più da lui, mi aspettavo anche molto di più da coach Jackson, che non è riuscito a predisporre adattamenti efficaci. Senza soffermarci sull'attacco (la Triangle Post Offense dov'è?), guardiamo la difesa. Per tutta la serie è bastato fare un pick and roll a 8 metri dal canestro (di Barea, non di Chris Paul) per mandare la difesa gialloviola in bambola. Insistere sulla single coverage di Gasol su Nowitzki è stata una follia: il crucco nelle prime tre gare ha preso fuoco sin dal primo quarto. Quando arrivavano gli aggiustamenti nel corso del match (la marcatura di Odom, i raddoppi) era ormai troppo tardi, anche perché Nowitzki è diventato un signor passatore, in grado di trovare sempre l'uomo libero.
A questo punto le rotazioni dei Lakers dimostravano tutta la loro inefficacia: ho perso il conto dei tiri presi dai Mavs con CHILOMETRI di spazio. Quando non c'era tutto questo spazio, i difensori dei gialloviola erano comunque in ritardo, e bastava fingere il tiro da 3, saltare l'uomo che arrivava disperatamente, fare un comodo passettino e infilare il jumper da 2. Ed è sempre bello vedere come queste considerazioni siano state scritte in maniera decisamente migliore da siti americani molto più validi di quest'umile blog.

E qui arriviamo ai meriti dei Mavs, perché se avete visto con attenzione il post linkato avete notato come si possa dominare una gara senza essere cavalcati ossessivamente in attacco. Ed è quello che i Mavericks e Nowitzki hanno fatto in questa serie: si sono passati la palla, sempre alla ricerca dell'uomo libero e del tiro migliore. Hanno saputo chiudere le partite nei momenti in cui queste andavano vinte, grazie alle prestazioni clutch di Nowitzki e di Terry. E persino di Barea e - udite udite - Stojakovic. Non hanno avuto passaggi a vuoto, a parte il parziale in gara-1 che li aveva portati sotto di 16. Hanno scommesso sui limiti dei Lakers nel tiro da fuori e hanno avuto ragione. Hanno subito 88 punti di media nella serie da una squadra che in stagione regolare ne faceva 101.

Diversamente da Dis/Impegno, non sono così sicuro sia la fine di questi Lakers. Certo, questo gruppo è finito.  Ma la base per ripartire c'è, anche senza Jackson. Probabilmente sarà un'estate più movimentata del solito in casa L.A., ma non credo che vogliano lasciarsi andare a ricostruzioni con un Bryant che ha comunque ancora un paio di stada dare.
E i Mavs? Cosa faranno ora è un'incognita, magari si sono giocate tutte le cartucce in questa serie. Magari no. Ma d'altronde ho rinunciato a capire questa squadra. E' proprio per questo che, nonostante tutto, la amo.

lunedì 9 maggio 2011

La fine

Lo sweep per il coach più vincente. La normalità per il giocatore al di sopra degli altri. L'impalpabilità per il fuoriclasse che da sempre lotta contro l'accusa di mollezza e per il veterano col vizio del canestro decisivo. Il ritorno alla follia per quello che prova ad esser come gli altri, dopo aver provato a menare un intero palazzetto. La dimostrazione di immaturità per l'eterno bambino. La fine di questi Lakers rigetta ombre che ormai sarebbero dovuto essere fugate su carriere spese a lavare macchie. Ma quello che la serie con Dallas potrebbe aver decretato è anche la fine di una certezza: per la prima volta, Kobe non trasmetteva la sensazione di poterla risolvere ad ogni azione. Non trasudava sicumera. Non era una spanna sopra gli altri. L'anticipo era arrivato in gara 7 delle scorse Finals, risolta da Gasol e RonRon. La certezza che mi abbandona è quella del Kobe Bryant decisivo, per forza, nell'arco di una intera serie. E non è solo perché i Mavs hanno crivellato la retina, ma perché neanche lui ha mai dato l'impressione di poterlo evitare.


La vittoria di Dallas è infatti arrivata in maniera così semplice da sembrare scontata, inevitabile, necessaria. Jackson le ha provate tutte, andando contro non solo il suo credo cestistico, ma se stesso. Inutilmente. Perché il vero carnefice dei Lakers non sono stati i miliardi di Cuban, i crauti di Nowitzki, le visioni di Kidd, le zingarate di Barea, le triple di Terry e Stojakovic, la difesa di Chandler, non le scelte difensive di Carlisle, ma il tempo. Semplicemente, inesorabilmente, il tempo.
Quello che Bryant ha passato a giocare nonostante infortuni, sempre al limite. Quello che Phil Jackson ha provato ad ingannare, concedendosi un anno in più. E' arrivato il conto, in anticipo rispetto al previsto, in ritardo rispetto al dovuto.
E' finito il tempo di Kobe sopra tutti, probabilmente è finito il tempo di Fisher, se le voci hanno un minimo di credibilità anche quello di Gasol ai Lakers. Il meno indenne al tempo poteva essere Bynum, il più giovane di tutti, nonostante il buon lavoro di Chandler e le parole di Magic, che lo vorrebbe sacrificato per arrivare a Dwight Howard. Anzi, era del tutto indenne fino alla sua insensata espulsione, quando il "bambinone" ha deciso di dimostrare che col tempo (e la maturità), a differenza degli altri, è ancora in credito. Per Bynum questa fine potrebbe comunque essere un inizio, con un nuovo ruolo ai Lakers o presso altri lidi.

Phil Jackson ha vinto tanto, avendo a disposizione, di volta in volta, il giocatore più forte supportato dai più forti. Il tempo ha dimostrato che queste condizioni, oggi, non c'erano. E Phil Jackson non ha potuto fare altro che guardare un intero secondo tempo di garbage time.
La fine di un'era ha riportato i suoi protagonisti alle pendici del monte per la cui scalata c'erano voluti 5 anni. Quelli della ricostruzione. E pressoché certo che altri 5 anni, Jackson, Bryant e soci non li abbiano. E la domanda che questi Lakers ci lasciano è, quante dimostrazioni e quante smentite servono per "pesare" una carriera?

venerdì 6 maggio 2011

The Decision 2.0

Va assolutamente condivisa.
In questa riedizione di Space Jam, LeBron prende la sua Decision, abbandonando i Looney Tunes.

sabato 30 aprile 2011

Corsi e ricorsi



Quando Gregg Popovich criticò la trade che portò Pau Gasol a Memphis, sapeva perfettamente che il lungo catalano avrebbe significato un grande ostacolo per le ambizioni da titolo degli Spurs.
What they did in Memphis is beyond comprehension,” said Popovich. “There should be a trade committee that can scratch all trades that make no sense. I just wish I had been on a trade committee that oversees NBA trades. I’d like to elect myself to that committee. I would have voted no to the L.A. trade.”
Quello che (lui e così noi e così tanti altri) non avrebbe mai immaginato è che la stessa trade avrebbe costituito la probabile fine della dinastia Spurs su due fronti completamente opposti. Quello dei Lakers, assodato. Ma quello dei Grizzlies giunge assolutamente inaspettato. E invece la chiave dell'eliminazione degli Spurs parte proprio da quella trade, che ha portato a Memphis quello che fino a quest'anno era semplicemente considerato come il fratello minore di Gasol (con la speranza che dopo una serie di questo tipo possa essere valutato per quello che è veramente, ossia un signor giocatore) e tanto spazio salariale, utilizzato per creare quella squadra che ha battuto gli Spurs, nonostante l'assenza di Rudy Gay.
E invece Memphis si è affidata a quella che potrebbe essere la più bella storia di questa postseason. A un lungo che ha sempre dimostrato di avere grande talento ma che finora era noto soprattutto per le sue bizze e per il suo peso. Ex Jail Blazers, ex Knicks versione Isiah, ex Clippers, risse, droga: un curriculum non proprio immacolato. E invece Zach Randolph ha banchettato sui lunghi Spurs, dimostrando per la prima volta di avere non solo talento, ma anche leadership e carisma. E, soprattutto, una freddezza nel crunch time che si è palesata più volte nella serie, dalla tripla di gara-3 (l'unica nella sua carriera ai playoff) ai canestri e ai liberi di gara-5, alle azioni che hanno sbarrato la strada all'ultimo tentativo degli Spurs di salvare capra e cavoli: 14 punti nell'ultimo quarto.


Dimostrando, allo stesso tempo e grazie anche ai puntuali tagli dei suoi compagni, di avere un'inaspettata capacità come passatore dal post (6 assist in gara-5, contro gli Hornets e i Sixers in regular season anche 7).


E nella decisiva gara-6, 31 punti di potenza, tecnica e rapidità, conditi da 11 rimbalzi. Guardate che botte che gli dava l'eroico e commovente Totò McDyess.


La grande serie di Randolph non deve però oscurare quanto di grande hanno fatto tutti i Grizzlies, coach Hollins in primis, che è stato in grado di trovare i giusti equilibri: dalla crescita di Darrell Arthur e Mike Conley (ora son tutti sorpresi, ma a Ohio State le premesse erano buone) all'esplosione di Sam Young in contumacia-Gay, alla gestione di OJ Mayo come sesto uomo, al contributo di due gregari eccellenti come Tony Allen e Battier. Tutto era apparecchiato per la prima vittoria nella storia della postseason della franchigia. Certo, da qui a vederli in semifinale di conference ce ne voleva...

Passiamo agli sconfitti. Quando un'immagine parla più di mille parole.


La sconfitta degli Spurs è la sconfitta di Tim Duncan. Nonostante una regular season giocata a marce ridotte, il caraibico ha tristemente mostrato i limiti anagrafici. 12 punti e 10 rimbalzi di media con il 47% dal campo non sono le medie di Duncan. Il 5/13 dal campo in una elimination game non è da Duncan. Il rimbalzo offensivo regalato a Randolph al decimo secondo del video più sopra non è da Duncan.
In realtà, io credo che un'ultima chance gli Spurs potrebbero averla se, come pare, la prossima sarà una stagione corta. Ma ci sarà da muoversi durante l'estate.

Per inciso, la trade-Gasol resta una porcheria :D

venerdì 29 aprile 2011

History in the making


Dove eravamo rimasti?
Ormai è troppo facile elogiare i Thunder. Sono giovani, costruiti bene, allenati bene. Hanno il miglior realizzatore degli ultimi due campionati, un secondo violino in crescita e (anche troppo intraprendente), tanti giovani in rampa di lancio. Hanno aggiunto il tassello Perkins, decisivo per liberare Ibaka dai compiti di marcatura sui 5, permettendogli di diventare un pericolo pubblico per gli attacchi avversari e di arrivare dal lato debole per stoppare (9 in gara-5, tanto per gradire). Attaccare contro questi Thunder è difficilissimo, perché hanno stazza (Perk, Mohammed), e possono occupare tanto spazio in verticale (Ibaka, lo stesso Westbrook) e in orizzontale (Durant, Sefolosha). In attacco poi ci pensa lui.

 

Ecumenico.

In realtà ai Thunder manca ancora qualcosa per puntare al bersaglio grosso. Di sicuro hanno le carte in regola per far soffrire gli Spurs (nel caso dovesse riuscire la miracolosa rimonta con i Grizzlies) e i Lakers (play rapido, solida rotazione tra i lunghi, buoni marcatori su Bryant).
Fatto sta che il 4-1 contro i Nuggets è un'affermazione più netta nel risultato che sul campo, perché Denver ha 
dato parecchio fastidio, pagando probabilmente la modalità con cui è strutturata la squadra dopo la trade con i Knicks. Perché avere tanti giocatori che vanno sopra i 10 punti di media è bello e piacevole fin quando va tutto bene. Ma nel momento in cui ti trovi in difficoltà tocca avere il fenomeno (vd. video sopra) che ti risolve le partite. I Nuggets si trovano di fronte ad una post-season (che ahinoi rischia di essere più lunga del solito) in cui dovranno fare molte scelte. Scadono i 16 milioni di Martin. Scade JR Smith. C'è la possibilità che Chandler torni a New York. C'è - soprattutto - la possibilità (che giudico comunque remota) che Nenè non eserciti la player option.
Insomma, bisognerà vedere come impostare la squadra. In regia, Ty Lawson ha dimostrato di essere uno su cui si può contare. Rapidissimo, ha spesso fatto a fette la difesa dei Thunder ed è stato con 15.6 ppg il miglior realizzatore dei Nuggets nella postseason. Il problema è che bisognerebbe anche creare per gli altri, e oltre alle sue mancanze i dubbi su Felton (disastroso nei momenti caldi di gara-5) sono tanti.