sabato 30 aprile 2011

Corsi e ricorsi



Quando Gregg Popovich criticò la trade che portò Pau Gasol a Memphis, sapeva perfettamente che il lungo catalano avrebbe significato un grande ostacolo per le ambizioni da titolo degli Spurs.
What they did in Memphis is beyond comprehension,” said Popovich. “There should be a trade committee that can scratch all trades that make no sense. I just wish I had been on a trade committee that oversees NBA trades. I’d like to elect myself to that committee. I would have voted no to the L.A. trade.”
Quello che (lui e così noi e così tanti altri) non avrebbe mai immaginato è che la stessa trade avrebbe costituito la probabile fine della dinastia Spurs su due fronti completamente opposti. Quello dei Lakers, assodato. Ma quello dei Grizzlies giunge assolutamente inaspettato. E invece la chiave dell'eliminazione degli Spurs parte proprio da quella trade, che ha portato a Memphis quello che fino a quest'anno era semplicemente considerato come il fratello minore di Gasol (con la speranza che dopo una serie di questo tipo possa essere valutato per quello che è veramente, ossia un signor giocatore) e tanto spazio salariale, utilizzato per creare quella squadra che ha battuto gli Spurs, nonostante l'assenza di Rudy Gay.
E invece Memphis si è affidata a quella che potrebbe essere la più bella storia di questa postseason. A un lungo che ha sempre dimostrato di avere grande talento ma che finora era noto soprattutto per le sue bizze e per il suo peso. Ex Jail Blazers, ex Knicks versione Isiah, ex Clippers, risse, droga: un curriculum non proprio immacolato. E invece Zach Randolph ha banchettato sui lunghi Spurs, dimostrando per la prima volta di avere non solo talento, ma anche leadership e carisma. E, soprattutto, una freddezza nel crunch time che si è palesata più volte nella serie, dalla tripla di gara-3 (l'unica nella sua carriera ai playoff) ai canestri e ai liberi di gara-5, alle azioni che hanno sbarrato la strada all'ultimo tentativo degli Spurs di salvare capra e cavoli: 14 punti nell'ultimo quarto.


Dimostrando, allo stesso tempo e grazie anche ai puntuali tagli dei suoi compagni, di avere un'inaspettata capacità come passatore dal post (6 assist in gara-5, contro gli Hornets e i Sixers in regular season anche 7).


E nella decisiva gara-6, 31 punti di potenza, tecnica e rapidità, conditi da 11 rimbalzi. Guardate che botte che gli dava l'eroico e commovente Totò McDyess.


La grande serie di Randolph non deve però oscurare quanto di grande hanno fatto tutti i Grizzlies, coach Hollins in primis, che è stato in grado di trovare i giusti equilibri: dalla crescita di Darrell Arthur e Mike Conley (ora son tutti sorpresi, ma a Ohio State le premesse erano buone) all'esplosione di Sam Young in contumacia-Gay, alla gestione di OJ Mayo come sesto uomo, al contributo di due gregari eccellenti come Tony Allen e Battier. Tutto era apparecchiato per la prima vittoria nella storia della postseason della franchigia. Certo, da qui a vederli in semifinale di conference ce ne voleva...

Passiamo agli sconfitti. Quando un'immagine parla più di mille parole.


La sconfitta degli Spurs è la sconfitta di Tim Duncan. Nonostante una regular season giocata a marce ridotte, il caraibico ha tristemente mostrato i limiti anagrafici. 12 punti e 10 rimbalzi di media con il 47% dal campo non sono le medie di Duncan. Il 5/13 dal campo in una elimination game non è da Duncan. Il rimbalzo offensivo regalato a Randolph al decimo secondo del video più sopra non è da Duncan.
In realtà, io credo che un'ultima chance gli Spurs potrebbero averla se, come pare, la prossima sarà una stagione corta. Ma ci sarà da muoversi durante l'estate.

Per inciso, la trade-Gasol resta una porcheria :D

venerdì 29 aprile 2011

History in the making


Dove eravamo rimasti?
Ormai è troppo facile elogiare i Thunder. Sono giovani, costruiti bene, allenati bene. Hanno il miglior realizzatore degli ultimi due campionati, un secondo violino in crescita e (anche troppo intraprendente), tanti giovani in rampa di lancio. Hanno aggiunto il tassello Perkins, decisivo per liberare Ibaka dai compiti di marcatura sui 5, permettendogli di diventare un pericolo pubblico per gli attacchi avversari e di arrivare dal lato debole per stoppare (9 in gara-5, tanto per gradire). Attaccare contro questi Thunder è difficilissimo, perché hanno stazza (Perk, Mohammed), e possono occupare tanto spazio in verticale (Ibaka, lo stesso Westbrook) e in orizzontale (Durant, Sefolosha). In attacco poi ci pensa lui.

 

Ecumenico.

In realtà ai Thunder manca ancora qualcosa per puntare al bersaglio grosso. Di sicuro hanno le carte in regola per far soffrire gli Spurs (nel caso dovesse riuscire la miracolosa rimonta con i Grizzlies) e i Lakers (play rapido, solida rotazione tra i lunghi, buoni marcatori su Bryant).
Fatto sta che il 4-1 contro i Nuggets è un'affermazione più netta nel risultato che sul campo, perché Denver ha 
dato parecchio fastidio, pagando probabilmente la modalità con cui è strutturata la squadra dopo la trade con i Knicks. Perché avere tanti giocatori che vanno sopra i 10 punti di media è bello e piacevole fin quando va tutto bene. Ma nel momento in cui ti trovi in difficoltà tocca avere il fenomeno (vd. video sopra) che ti risolve le partite. I Nuggets si trovano di fronte ad una post-season (che ahinoi rischia di essere più lunga del solito) in cui dovranno fare molte scelte. Scadono i 16 milioni di Martin. Scade JR Smith. C'è la possibilità che Chandler torni a New York. C'è - soprattutto - la possibilità (che giudico comunque remota) che Nenè non eserciti la player option.
Insomma, bisognerà vedere come impostare la squadra. In regia, Ty Lawson ha dimostrato di essere uno su cui si può contare. Rapidissimo, ha spesso fatto a fette la difesa dei Thunder ed è stato con 15.6 ppg il miglior realizzatore dei Nuggets nella postseason. Il problema è che bisognerebbe anche creare per gli altri, e oltre alle sue mancanze i dubbi su Felton (disastroso nei momenti caldi di gara-5) sono tanti.

domenica 24 aprile 2011

Non può piovere per sempre... o forse sì

 "Dallas può essere la dinastia dei prossimi anni" (Massimo D'Alema, giugno 2006)


Eppure avrei dovuto immaginare che sostenere una squadra con Shawn Bradley non dovesse essere una buona idea.

Il mio pensiero ieri notte, mentre vedevo Brandon Roy (che sarebbe sempre senza cartilagine nelle ginocchia) fare a pezzi quella che fino a pochi dieci minuti prima sembrava una squadra da basket, è andato al momento in cui ho iniziato a tifare Mavs. Momento che, a dire il vero, non riesco neanche a ricordare con precisione.


E ieri notte, rigirandomi nel letto di fronte a qualcosa che era di più di un dejà vù e santificando a suon di bestemmie una Pasqua iniziata da pochissime ore, mi chiedevo perché non potessi essere come tanti altri. Perché non tifassi Lakers. Oppure perché non seguissi a mo' di bandieruola gli spostamenti della star di turno.
Perché dovessi rimanere a guardare un ottimo giocatore (ma in teoria sempre senza ginocchia) continuare a penetrare quella che doveva essere una difesa ma che assomigliava di più ad una minorenne nel bel mezzo di un bunga bunga. E l'impassibilità dello spettatore Carlisle/Lele Mora.

Abbiamo perso un titolo facendoci rimontare dal 2-0 con gara-3 che andava verso il Texas. Ci siamo fatti buttare fuori dai Warriors (i Warriors, non una testa di serie numero 8 qualunque... i Warriors!) nel più grande upset che l'Nba ricordi. Aggiungiamo quest'altra bella figura: 24 punti di vantaggio buttati via in un quarto.
Magari un giorno tutto questo finirà, ma anche Freud avrebbe gettato bandiera bianca di fronte a questi qua.

"Signor Cuban, è ricco e ha tutto per una bella vita... ma chi glielo fa fare?"

domenica 17 aprile 2011

A caldo su Sassari-Roma

Gran finale di partita, che mi lascia alcuni spunti.

1) Traorè: st'anno ha fatto schifo, ha dovuto "imparare" a non fare passi, ma di gente che gioca così il post basso non ce n'è molta. Le difficoltà sono state evidenti anche fuori dal campo (complici anche delle dichiarazioni non troppo furbe del francese), ma fossi in Roma, ci penserei bene prima di scaricarlo.

2) Washington: la dimostrazione che nel basket serve il cervello.

3) Datome è diventato un giocatore.

4) Sassari: una squadra col manico. Una squadra di gente che, spettacolo a parte, sa tenere la testa dove deve stare quando la palla scotta. E nonostante il fischio errato su White, sono riusciti a fare le cose giuste negli ultimi secondi.

In ogni caso, partite del genere in Italia sono rare. Se il basket fosse sempre questo, tutte le questioni politiche andrebbero a farsi benedire: la gente non potrebbe non appassionarsi.

sabato 16 aprile 2011

Dei massimi sistemi: la stagione di Kevin Durant

Leggo da più parti commenti delusi riguardo alla stagione di Kevin Durant. Dai portali americani a quelli nostrani, l'opinione diffusa è un " Durant sì, ma..", forse delusi dalla mancanza di numeri alla Wilt Chamberlain. Fare discorsi come quello che mi accingo a fare, poco prima della serie contro una Denver imbizzarrita, è decisamente rischioso, ma li faccio lo stesso.

Rispetto all'anno scorso, Kevin Durant ha abbassato le sue percentuali dal campo. 50,3% da 2 contro 50,5%, 35% da 3 contro 36,5%, 88% contro 90% ai liberi. In più, prende 0,8 rimbalzi in meno a partita, etc. etc. etc.
Inoltre, è cambiata la distribuzione dei tiri: 1 tiro da 3 in più, 1,5 tiri liberi in meno ed è questa la voce che prevalentemente fa gridare allo scandalo. Se poi si tiene conto che è ormai una superstar ed inizia a racimolare i fischi da superstar, dei liberi che prende non sono da escludere vari "regali" degli arbitri. Diciamocelo: Durant quest'anno attacca meno il ferro.
Il principale deputato all'attacco del ferro è Russell Westbrook. Il nodo della faccenda è questo: Westbrook ha aumentato i suoi punti, tira un po' meglio da tre (ma non di più), in compenso va molto più spesso in lunetta (7,7 tiri liberi contro 5,1 dell'anno scorso).
Allora è migliorato Westbrook e peggiorato Durant? la stagione di Durant è deludente? Io dico per niente.



Westbrook è, come direbbe il Maestro Franco Lauro, un fattore, ma è tutta la squadra a bilanciarsi in maniera diversa: la crescita dei singoli permette ai Thunder di dipendere molto meno dalle iniziative del suo principale realizzatore. Oltre a Westbrook, ci sono sempre Harden, che porta tanti punti dalla panchina, e Ibaka, che ha costruito un tiro affidabile dai 5 metri. In questo modo, il mismatch vivente che risponde al nome di Durant può permettersi di stare un po' di più sul perimetro, sfruttando il suo "discreto" rilascio e "riposarsi". Perché tirare da 3 costa molta meno fatica che attaccare il ferro.
Dopo i mondiali Turchi ci si aspettava un Durant da almeno 35 punti a partita. Ripercorriamo gli ultimi 25 di capocannonieri NBA.



Si nota che, a parte Allen Iverson nella stagione del lockout, il KD di quest'anno è il capocannoniere con la media punti più bassa. Se invece andiamo da Jordan nel 86-87 e da Kobe Bryant nel 2005-2006 vediamo che tiravano, di media, la bellezza di oltre 28 e 27 palloni a partita. E' possibile segnare 35 punti a partita con meno tiri? Evidentemente no: segnare 35 punti vuol dire monopolizzare l'attacco. E' conciliabile un attacco monopolizzato con le vittorie di squadra? No.
Se Durant avesse tenuto le stesse percentuali della passata stagione, avrebbe segnato la bellezza di… 24 punti in più. Totali. Ossia 0,33 punti in più a partita. Il che gli sarebbe valso il sorpasso ai danni di Tmac ed il terzultimo posto della suddetta classifica. Mica pizza e fichi.
Durant ha fatto, a livello personale, cose molto simili a quelle dell'anno scorso, ma senza il peso di essere l'unico a poter segnare. La crescita di Westbrook è compagni non è da vedersi a discapito di KD, ma è sinergica: non sono i Cavs senza LeBron, o gli stessi Bulls senza Rose. E in questi Thunder che ottengono risultati migliori rispetto a quelli della passata stagione, Durant è ancora più pericoloso. Perché tra le frecce al suo arco ci sono anche i miglioramenti dei suoi compagni di squadra, e le coperte difensive altrui diventano per forza più corte.

sabato 9 aprile 2011

Dei massimi sistemi: Kobe Bryant è clutch?

Andiamo con ordine. Tutto ebbe inizio con questo discusso articolo, che si chiedeva "In realtà, quanto è clutch Kobe?". Soltanto porre la domanda, visto l'argomento ed il soggetto, sarebbe stato sufficiente per alzare un polverone di reazioni, con toni compresi tra la lesa maestà dei Kobisti e la goduria degli anti-Kobisti: il loro nemico diverrebbe attaccabile proprio su uno dei suoi principali punti di forza.
Bene, immaginate ora che detto articolo non si limitava solo alla domanda, ma forniva una parziale risposta: in fondo, tanto clutch Kobe non è. Apriti cielo. Ma sono proprio queste le situazioni per "il Moralizzatore".

Innanzitutto, cosa vuol dire essere clutch? Essere clutch vuol dire rimanere freddi, non cagarsi sotto quando la palla scotta. Ossia, in linea di massima, gli ultimi minuti di una partita punto a punto. L'epica del gioco è piena di situazioni complesse risolte da eroi, che hanno chiuso la partita o con una singola giocata decisiva (ad esempio, la rubata di Bird contro i Pistons) o prendendo il completo controllo delle operazione e vincendola da soli (Miller vs Knicks, McGrady vs Spurs, etc..). Per quest'ultima situazione, c'è un'espressione inglese che secondo me rende benissimo l'idea: to take it over. Prendere il controllo, impadronirsi di compagni, avversari e partita. E questa è la missione cestistica di Bryant: mosso da un imperativo, Kobe assume sempre e comunque il comando delle operazioni quando c'è da portarla a casa. E io vi faccio questa domanda: è questo il clutch? Se ne facciamo una questione di voglia, secondo me non c'è singolo giocatore che brami il peso della responsabilità quanto lui. E se dovessi decidere chi prende l'ultimo tiro, mi dispiace ammetterlo, ma andrei con il Mamba.



Però c'è un però. C'è differenza tra prendersi un tiro e prendersi sempre e comunque tutto l'attacco. Ogni attacco che si rispetti è fondato su circolazione, movimenti con e senza l'arancia, ritmo ed equilibrio: un osservatore un minimo competente riconosce subito un buon tiro da un cattivo tiro. Un tiro che ha il 60% di possibilità di entrare è diverso da uno che ne ha il 20. Ecco, io non capisco perché questi concetti valgano fino a 5 minuti dalla fine; al 43°, la circolazione di palla va a farsi benedire, i compagni di squadra diventano comparse e il gioco della pallacanestro diventa la superstar contro il resto del mondo. Prendere un tiro considerato forzato nei primi 43 minuti è quasi l'obiettivo, perché la superstar è un super sayan che conta di mettere qualsiasi cosa.
E no! Un tiro di merda resta un tiro di merda. Il 20% è sempre il 20%. Non ci sono se e ma. L'epica vuole che sia il campione a risolverla: d'accordo, ma non palleggiando per 24' e forzando una preghiera. E se il passaggio non è contemplato, è normale che le statistiche clutch di Kobe siano quelle riportate nell'articolo.

Kobe ha molti più tentativi di tutti gli altri perché ultimi 5' minuti per lui diventa una questione personale. Ha i mezzi per vincerle tutte, ma non può vincerle tutte: con riferimento alla passata stagione (comunque conclusasi con un titolo, purtroppo), i Lakers avevano un record di 53-20 con Kobe in campo. Che nelle gare clutch scendeva a 13-11.
Allora, per concludere, rifaccio la domanda: Kobe Bryant è un clutch player o no? La mia risposta è comunque sì. Però per me non basta non aver paura e volerla vincere: rimanere freddi vuol dire anche saper leggere le situazioni e decidere eventualmente di passare la palla. Non è mica un disonore..

mercoledì 6 aprile 2011

Nostalgia canaglia

Appena finito di leggere "Il basket eravamo noi", dedicato alle carriere (e non solo) di Larry Bird e Magic Johnson, il mio pensiero è andato ad un altro volume che avevo letto un paio di anni fa, Rivalry, dedicato invece alle carriere (e non solo) di Bill Russell e Wilt Chamberlain.
E' curioso notare come i duelli tra queste due coppie di splendidi giocatori e delle loro rispettive squadre (credete sia un caso che si tratti in entrambi i casi di Celtics e Lakers? Noi di Voyager crediamo di no) abbiano saputo incidere così tanto non solo sul gioco, ma anche sulla crescita di una nazione e di una società.
Russell e Chamberlain si sono scontrati nel pieno di un'epoca tormentata da fortissimi sentimenti razziali. Con le loro battaglie hanno contribuito a far evolvere il gioco, fino a quel momento di scarsa attrazione, ottenendo importanti riconoscimenti per i giocatori anche da un punto di vista contrattuale e previdenziale. Ma soprattutto sono stati capaci di aprire la strada all'integrazione.
Allo stesso modo, Bird e Magic sono stati in grado di salvare una NBA che era sempre più allo sbaraglio, tra arene vuote, disinteresse dei media e diffusione delle droghe. Magic col suo sorriso a 32 denti, Bird con i suoi silenzi: entrambi hanno contribuito a rendere la lega ciò che è ora e che solo il fenomeno Jordan ha saputo proiettare più in alto. Ma anche loro, come Russell e Chamberlain, hanno avuto un forte impatto sulla società. La questione razziale, certamente, convincendo i neri che questo Bird tanto male non fosse e i bianchi che questo Magic alla fine vedeva in campo cose che nessuno era in grado di vedere. E poi con l'opera di sensibilizzazione sul virus HIV, in un'epoca in cui l'AIDS era qualcosa di sconosciuto e significava morte certa: le battaglie di Magic hanno dimostrato la possibilità di poter convivere con il virus; come dimenticare l'All Star Game del 1992, a pochi mesi dall'annuncio della sieropositività?



Un libro da leggere tutto di un fiato, quindi, grazie ai racconti delle due leggende. Dai quali traspare anche l'evoluzione dei sentimenti nei confronti dell'altro: curiosità, odio, simpatia, amicizia. E rispetto.
Considerazioni a margine:
1) Cosa avreste dato per poter assistere a un allenamento del Dream Team?
2) Un appunto sulla traduzione e in generale sull'edizione italiana: capisco che il libro possa interessare anche ad appassionati occasionali del basket, ma che senso ha scrivere in seconda di copertina "Prima di Ibra, Messi e Cristiano Ronaldo c'erano loro: Magic Johnson e Larry Bird"? Ed era proprio necessario mettere tutte quelle note a piè di pagina? Perché voglio anche capire la necessità di spiegare aspetti del basket americano che magari possono sfuggire a molti (l'organizzazione in Division della NCAA, ad esempio). Ma stare a spiegare cosa sia una point guard, un draft, gli highlights (Le azioni più significative della partita, ndT) o un Hall of Famer (Membro della Hall of Fame, ndT. 30 pagine prima aveva spiegato cosa fosse la Hall of Fame) sembra un po' esagerato.

Maccabi doesn't roll on Shabbas

After careful study and consultation with all clubs and partners involved, Euroleague Basketball establishes the definitive schedule of games at the 2011 Turkish Airlines Euroleague Final Four taking into consideration the legal concerns of one of the qualified teams, Maccabi Electra Tel Aviv.


Buoni e cattivi

Squadre che andranno ai playoff, e mi fa piacere:
Philadelphia: e chi l'avrebbe mai detto? Io no di certo. Collins (che perderà il COY a causa della grande stagione dei Bulls) ha trovato il cocktail vincente e i Sixers dopo una partenza atroce si sono dimostrati una squadra vera. Peccato per l'impatto zero di Turner, ma è interessante lo sviluppo di Iguodala: i numeri, se rapportati alle stagioni precedenti, farebbero pensare ad una stagione in calo. La sensazione è che invece siamo di fronte alla maturazione di un giocatore in grado di fare di tutto e di più.
Memphis: una programmazione faticosa ma che alla fine sembra essersi dimostrata valida. Randolph ormai è una certezza, Gasol jr. è un lungo affidabile, hanno saputo gestire il caso Mayo e soprattutto è esploso Mike Conley. Peccato debbano fare a meno di Gay nei playoff.
Denver: hanno vissuto mesi complicati, con la spada di Damocle del contratto di Melo che pendeva dalle Montagne Rocciose. Ne sono usciti alla grande: non solo non lo hanno perso aggratis, ma hanno ricevuto in cambio giocatori giovani e di valore che sono andati ad inserirsi perfettamente nelle alchimie di coach Karl. La vera mina vagante dei playoff.
Portland: perché nonostante tutti gli infortuni hanno saputo mettere su una stagione di alto livello, guidati dall'esplosione di Aldridge. C'è un problema: sono la 28sima squadra della lega per rimbalzi a partita. E questo in ottica postseason può essere determinante.
Oklahoma City: come si fa a non tifare per una franchigia che programma in questo modo?
Squadre che andranno ai playoff, e non mi fa piacere:
I Lakers e Miami: perché sono i Lakers e Miami.
New York (qui rischio liti di coppia): tornano alla postseason dopo ere geologiche e questa è una buona notizia. Ma al momento restano un ibrido che non convince e mi sa che l'unico modo per uscire dall'equivoco sarà dare il benservito a D'Antoni. Visto che Bucchi al momento è fermo, contiamo in un ritorno di Isiah per avere un po' di nuovo materiale per il blog.
Squadre che non andranno ai playoff, e mi fa piacere:

Detroit: d'altra parte, quando dai tutti quei soldi a Gordon e Villanueva, un po' te lo meriti
Toronto: scusate, sapete dov'è il tasto Reset? Buona notizia: in estate si liberano i 15 milioni di Peja e Ed Davis promette bene.
Utah: no Sloan no party. In realtà c'è tutta una serie di fattori che andrebbero approfonditi, ma basta questo per inserirli nei cattivi. Occhio però a quanto sta facendo Hayward in queste ultime gare.
Squadre che non andranno ai playoff, e non mi fa piacere:
Houston: se li meriterebbero, dai. Squadra divertente da vedere e senza un giocatore franchigia. Gran bel lavoro di Adelman, peccato.
Clippers: restano un progetto affascinante. Ma sono i Clippers e quindi è destinato a fallire. E anche vero che se fossero andati ai playoff non sarebbero stati i Clippers.
Sacramento: sono una squadraccia, ma i tifosi della Arco Arena meriterebbero un'ultima postseason prima del trasferimento a pochi chilometri dallo Staples Center (ma come, proprio lì?)
Phoenix: per Steve.
Cleveland: e bisogna chiederlo? Al di là della questione karma... Manny Harris, Samardone Samuels, Gee, Haranciccio: una squadra di giovani idoli!

lunedì 4 aprile 2011

Il declino di American SuperBasket

C'era un tempo in cui ero un lettore sfegatato di American SuperBasket: ho ancora in casa parecchi numeri della rivista, acquistati prevalentemente in anni universitari. E non ho la minima intenzione di buttarli. Anzi, di tanto in tanto mi piace spulciarli e vedere l'evoluzione di squadre e giocatori rispetto a come se ne parlava allora.

La sempre maggiore velocità nel mondo delle comunicazioni ha ovviamente rappresentato una svolta per l'intero settore. Si è quindi avvertita una minore necessità di un quindicinale che usciva sostanzialmente già vecchio, quando ormai con internet bastano pochi minuti per informarsi sul basket di oltreoceano. A questo va aggiunto il fenomeno Twitter che, come fatto notare nientemeno da Mark Cuban su Facebook, sta causando parecchi problemi negli States anche a colossi come ESPN, incapace per il momento di rispondere alla perdita di traffico generata dalla possibilità di informarsi in maniera rapida (e sintetica) con i tweets.
Detto questo, la rivista di riferimento sul basket americano ha visto negli ultimi anni un clamoroso appiattimento, che si è concretizzato nella perdita di firme d'autore (da Buffa a Dan Peterson. Bagatta ovviamente non lo inseriamo) a cambi al vertice. L'esperimento che ha visto l'ottimo per quanto prolisso Gotta alla direzione non ha avuto i fini (da tutti, lui per primo) sperati. E così si è passati alla guida di Limardi.

Ora, ho qui in mano l'ultimo numero, quello con Derrick Rose in copertina, per intenderci. In questo weekend di viaggio, tra un fremito e l'altro per il concerto di Roger Waters, ho avuto la possibilità di studiarmi con attenzione la rivista. E direi che qualcosa non quadra.
Innanzitutto, temo che il taglio dei costi abbia portato ad una riduzione di organico (nella gerenza alla voce Redazione compare il solo nome di Benzoni): di conseguenza la cura per la rivista si è sensibilmente ridotta. Questo è evidente tanto nei contenuti (le pagine iniziali, concentrate più sul rendimento di giocatori in calo o in crescita, piuttosto che sulla ricerca di curiosità nelle pieghe della Lega) quanto nell'esposizione di questi. Sono presenti infatti ripetizioni ed errori marchiani. Esempi: a pagina 60 il pezzo è di di Andrea Beltrama. Poche pagine prima, l'articolo dei Blazers si conclude con un sibillino "Ora a mancare ora è soltanto il secondo titolo NBA". Lo stesso articolo vede nel sommarietto di pagina 50 la comparsa di tale Mathhews, con una t e due h, Per non parlare di pagina 9, dove il coach dei Nuggets viene chiamato nel titolo (dannazione, nel titolo!) GEORGA, con la A finale. Ed altro ancora.
Insomma, ci sono quasi più "pesci" che in un qualunque pezzo del mio co-blogger prima che passi per il mio severo vaglio.
Altro problema è quello dei contenuti: non potendo tenere il passo dell'attualità, è necessario individuare e raccontare storie. Per farlo, triste dirlo, devi muovere il culo da dietro la scrivania. Non può bastare il pezzo sul ritorno di Battier a Memphis. Non può bastare la solita intervista sdraiata a Bargnani, che confessa di giocare per le cifre nel garbage time e che in America punti in più valgono dollari in più. Non può bastare un pezzo sulla carriera di Mike Bibby e il suo arrivo agli Heat. Perché quell'articolo te lo può scrivere anche il ragazzo appassionato che si vede 20 partite di Miami l'anno, ha una buona penna e un blog. Non per nulla il pezzo migliore è proprio quello di Beltrama sull'NCAA che pur essendo lontano anni luce da quelli di Gotta ha il merito di cercare di inserirti nell'atmosfera dei primi giorni del Torneo.
Servirebbero storie, quindi. Possibilmente raccontate bene.
Ma la direzione imboccata mi sembra sia quella opposta.

venerdì 1 aprile 2011

Evvia il sig.Lima! (contiene scuse)


Ho peccato di ingenuità: doveva essermi chiaro sin dall'inizio che un uomo capace di sposare LEI, potesse essere in realtà capace di ogni impresa. In realtà, mai discusso il giocatore, solo la tempistica del suo acquisto. E comunque ho toppato. Infatti io sono qua a scrivere cazzate, mentre Minucci&Calà, che due mesi fa bene hanno pensato di fregarsene delle condizioni di Jaric ed ora se ne godono i frutti, festeggiano il secondo approdo alle F4 da quando è attivo il loro sodalizio.



Su una cosa però ci abbiamo visto lungo: Siena di quest'anno è più equilibrata di quella degli anni passati, troppo perimetrale, e quindi molto meno funzionale per l'Europa. Lo dicevamo qui, qui e ancora qui.