lunedì 17 maggio 2010

Wilt, LeBron e Rodman per pranzo

Si è soliti dire che, se il basket è quello che è oggi, è principalmente merito di Danny Biasone, Doctor J e Michael Jordan. Il primo, italo-americano proprietario dei Syracuse Nationals (poi Philadelphia 76ers), fu “l’inventore” dei 24 secondi; il secondo è quello che ha portato il basket da sport giocato a terra a sport giocato in aria, il terzo è quello che ha riscritto l’epica della pallacanestro, ridisegnato la figura del “vincente”. In realtà, forse nessun uomo ha modificato il gioco, in termini di regole cambiate ad hoc per ridurne lo strapotere, quanto Wilt Chamberlain ha fatto nella sua carriera.
Alto 2,18 per 130 chili, eccezionalmente coordinato e armonioso nei movimenti, Wilt Chamberlain è stato il realizzatore di 100 punti in una singola partita (36/63 dal campo contro i Knicks, storicamente propensi ad entrare nella storia dal lato sbagliato), in una stagione da 50 di media; Chamberlain è il miglior rimbalzista della storia NBA (in una partita contro i Celtics ne prese 55) e, memore del suo passato negli Harlem Globetrotters, un anno guidò addirittura la Lega in assist. Giocando da centro. Se si cerca in giro per record Nba, però, si vede che ancora oggi molte delle primizie statistiche portano il suo nome.
Vero che si parla d’altri tempi ed altro basket, ma il fenomeno mediatico Chamberlain era già assolutamente paragonabile alle odierne superstar: da liceale, il corteggiamento delle università che volevano reclutarlo divenne per lui insostenibile e prima del suo arrivo tra i pro, un giornalista si chiese se la pallacanestro sarebbe sopravvissuta a Chamberlain. Il suo strapotere fisico, prima ancora che tecnico, era imbarazzante: era più alto, o più veloce, o più forte di tutti i suoi avversari ed era in grado di dettare le regole di una gara sui due lati del campo.

E se il basket è sopravvissuto a Chamberlain, oggi possiamo dire di sì, gran parte del merito fu dei Celtics di Bill Russell e Red Auerbach, ma anche dello stesso Wilt. I biancoverdi erano l’unico team che poteva permettersi di non raddoppiare Chamberlain: Wilt finiva sempre con il suo consistente bottino di punti e rimbalzi, ma Russell gli impediva di dominare la partita, permettendo a Boston di vincere titoli su titoli. Fate undici in tredici anni. Vero, altri tempi ed altro basket: si pensi che al vecchio Garden si difendeva cercando di portare gli avversari sui “punti morti” del parquet, dove la palla rimbalzava male ed era quindi più facile rubarla. Ma sono sempre undici in tredici anni, e quasi ogni anno il cammino di Russell e di Chamberlain si incrociava nei playoff. Dove, fatta eccezione che per il 1967, si sono sempre imposti i Celtics.



Il merito di Wilt? Oltre all’aver dato vita ad una rivalità con Bill Russell che finalmente appassionò l’America al basket (e oltre ad essere stato la prima superstar di colore), il merito di Wilt fu quello di aver dimostrato, forse per la prima volta, che da soli non si vince se di fronte c’è una squadra. In questo giocò un ruolo fondamentale il suo carattere. Dopo aver dimostrato a se stesso e al mondo che poteva battere Bill Russell ed i Celtics, (giocando di squadra, poiché il 1967, anno del suo primo titolo, fu il primo sotto i 30 di media), Wilt finì col concentrarsi sulla cosa che amava di più: i record. Ed i suoi compagni di squadra, spesso a loro volta superstar come Paul Arizin, finivano sempre con lo scendere di livello per quanto fosse dominante la sua figura. Non importava chi avesse chiuso meglio la regular season ed avesse il vantaggio del fattore campo: giocando meglio, grazie ad uno spogliatoio più unito, o grazie al loro proverbiale “culo”, erano sempre i Celtics ad avere la meglio.

Premendo FF nel nastro della storia del gioco, trent’anni dopo il secondo ed ultimo titolo di Chamberlain, nella Nba arrivò un Karl Malone che giocava playmaker: il Prescelto, Re Giacomo, LeBron James.
Il suo strapotere fisico, prima ancora che tecnico, era imbarazzante: era allo stesso tempo più veloce, più pesante e più forte di chiunque provasse a marcarlo, tirava col 50% da metà campo ed aveva in dote, oltre al fisico del suddetto Malone, la visione di gioco di un Jason Kidd e forse la miglior mano sinistra per concludere di tutta la lega. King James fu autore di alcune stagioni da videogioco: tabellini alla Oscar Robertson tutte le sere, primati su primati conquistati ed i derelitti Cavs arrivavano alla post season con il miglior record della lega. Poi, nonostante LeBron continuasse con i suoi numeri irreali (che alle volte diventavano semplicemente impossibili, come nelle finali di Conference del 2009), i Cavs non arrivavano mai all’anello. L’unica costante, oltre ai numeri del Re, era l’incostanza dei suoi compagni di squadra. Chiunque essi fossero.
LeBron oggi ha trasceso i confini del giocatore, diventando di fatto l’allenatore, il GM, la franchigia e forse l’intera città. È lui che fa le regole, è lui che comanda. Il supporting cast gli è stato sempre cambiato secondo le sue preferenze, prima cercandogli un secondo violino (prima Larry Hughes, ora Mo Williams, il prossimo sarà Joe Johnson), poi un giocatore che gli potesse aprire il campo (Antawn Jamison), dopo che il campo gli era stato chiuso con Shaq, che però era là sempre per far felice LeBron. Chiunque vada alla sua corte, anche ex giocatori franchigia, si scioglie però come burro sotto i raggi del Re Sole, che divora gli avversari nelle 82 partite di stagione, ed i compagni nei playoff.

LeBron probabilmente non ha la stessa libido statistica di Wilt Chamberlain, né il suo carattere sensibile fino all’estremo, ma è al pari di Wilt un uomo, cresciuto sotto i riflettori, capace di coltivare il proprio talento al punto da rendersi alieno al resto del mondo. Chi scrive sa che questo discorso, oltre a lasciare il tempo che trova, è prematuro, perché si parla di un ragazzo di neanche 26 anni, ossia in linea per chiudere la carriera con 8 successi finali. Ma chi scrive pensa che non ci sia stato Jordan senza Bulls. Che non si vince (e non si perde) da solo. Che se però Jordan si mangia i Bulls, allora è solo per davvero, come lo era Wilt e come forse lo è LeBron…

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